GRANDI DIMENTICATI • Praticamente introvabile “L’isola dei Ming è risorta”: avventure esotiche e un tocco di Liala
ALESSANDRO ZONTINI
Nell’estate del 2011 si tenne a Falconara Marittima, nell’ambito dell’annuale “Mostra del fumetto” locale, un’importante mostra dedicata a Emilio Salgari ed alle sue innumerevoli pubblicazioni. La manifestazione, ottimamente organizzata e che ebbe il fondamentale contributo dalla “Fondazione Rosellini” di Senigallia, mirava a riorganizzare in modo coerente e filologicamente corretto il “mondo salgariano” recuperando l’impressionante produzione narrativa dello scrittore torinese ed anche quella dei suoi innumerevoli emuli.
In occasione della mostra, di livello alto specularmente inverso al tragico disinteresse nazionale rilevato (due pagine del “Resto del Carlino”, in data 25 agosto 2011, e poco altro), venne approntata, a cura della suddetta Fondazione, una meravigliosa monografia stampata in sole 999 copie. Il volume, riccamente illustrato, rappresenta, probabilmente, l’acme delle indagini svolte sul complicato “corpus” delle opere di Salgari (di analoga importanza anche il volume di Vittorio Sarti edito, nel 1994, dalla “Sergio Pignatone editore” di Torino). Il nome Emilio Salgari non abbisogna di alcuna presentazione sia per quanti hanno letto i suoi romanzi sia per quanti, ragazzi negli anni ’70, hanno gioito e pianto per le vicende del suo più celebre eroe: Sandokan. Nel 1976 la Rai Tv trasmise lo sceneggiato, in 6 puntate, diretto da Sergio Sollima, “Sandokan” (interpretato da un efficacissimo Kabir Bedi) che catalizzò l’interesse nazionale proponendo le vicende della Tigre di Mompracem, dei suoi “tigrotti”, di Yanez, di Lady Marianna e di Sir James Brooke (un Adolfo Cieli perfetto in quel ruolo): milioni di telespettatori non si persero una sola puntata. Il successo, così eclatante, aveva un solido precedente: il grande ap- prezzamento di cui avevano goduto i personaggi di Salgari, fin dalle prime apparizioni dei suoi libri, alla fine dell’800. Il momento storico, va stigmatizzato, giovò non poco al successo dello scrittore torinese. Conclusosi, infatti, l’avvincente periodo storico delle grandi esplorazioni africane della fine del ‘800 (periodo che, per l’Inghilterra, aveva segnato un’importante estensione del proprio impero coloniale, mentre per la giovane Italia aveva rappresentato la sconfitta di Adua del 1896, il massacro di Vittorio Bottego sul Daga Roba nel 1897, la morte di Romolo Gessi nel 1881 e ben poche soddisfazioni), l’interesse mondiale volgeva il proprio sguardo verso l’oriente che, giusto per indugiare nell’ambito delle ovvietà, era sempre “misterioso”.
Jack London, allora giovane corrispondente di guerra durante lo scontro russo-giapponese, conclusosi con l’affondamento della flotta navale dello Zar Nicola II nella battaglia di Tsushima ad opera dell’ammiraglio Heihachiro Togo, aveva coniato il famoso slogan: “Attenti al pericolo giallo!” (non sisa perché, in seguito, attribuito a Benito Mussolini) ed aveva, ulteriormente, con i suoi articoli, catalizzato l’attenzione popolare europea verso il lontano “oriente”. Non fu immune da tale fascinazione anche Emilio Salgari che ambientò, peraltro senza esserci mai stato, gran parte delle sue vicende nell’estremo oriente. Giova, tuttavia, ricordare che lo scrittore torinese si concesse incursioni geografiche-letterarie anche in Antartide, Artide, Africa, Brasile, Cipro, Cuba, Egitto, Foresta Amazzonica, U.S.A. giungendo perfino a Cremona: nel suo romanzo di proto-fantascienza del 1907 “Le meraviglie del 2000”, compendio immaginifico di macchine fantastiche, razzi interplanetari, città sottomarine ed altre fantasticherie, si cita persino la città del Torrazzo. Come accennato, il successo letterario di Salgari fu enorme e, come facilmente prevedibile, una pletora di autori si dedicarono alla neonata moda “salgariana” cercando, spesso solo per meri intenti economici, di emulare l’autore torinese pur senza averne le doti letterarie. Alcuni, probabilmente a causa della scarsa tecnica letteraria o della banalità dei soggetti proposti, sono, perlopiù, stati l’oggetto di un ingeneroso oblio.
Tra i tanti, va ricordato Carlo De Mattia noto per esser stato, genericamente, uno “scrittore di letteratura per giovani”. Se sulla piattaforma “ebay” è, allo stato, presente qualche suo libro, a prezzo accessibile, del suo volume “L'isola dei Ming è risorta” del 1932 (Edizioni “La Prora” di Milano), viceversa, si son perse le tracce. L'unico esemplare noto di tale libro (di cui De Mattia ha realizzato anche le illustrazioni) è conservato presso il “Sistema Bibliotecario di Milano”. Eppure il volume è singolare risultando una perfetta - ed inaspettata - crasi tra il romanzo d’avventura esotica, che paga un pesante tributo al mondo salgariano ed ai suoi canoni e, al contempo, un romanzo d’amore che, pure, paga pegno alla letteratura “rosa” tanto diffusa negli anni ’30 (si pensi ad autrici quali Liala, Mura, Neera, etc.).
Le vicende avventurose, ambientate nel Mar della Cina, a Giava, a Macao, a Singapore hanno, quali protagonisti principali, l’italiano Roberto e la bellissima Ester Klaus; la loro storia d’amore fa da “canovaccio” a tutti gli stereotipi dell’avventura salgariana che sono, abbondantemente, presenti.
Tra i personaggi, caratterizzati da qualche venatura che oggi, nell’epoca dell’insulso “politically correct”, definiremmo “razzista”, primeggiano “il malese”, il capitano giapponese Soritomo Satsuma (che era sì un orientale ma del Giappone e quindi, nell’accezione dell’autore, meritevole di rispetto), Lao Tsun, il più famoso bandito dei mar della Cina e contrabbandiere d’oppio e l’usuraio, ovviamente ebreo, Geremia Klaus. Peraltro, l’avido e severo Klaus che vuol comperare da Roberto, ad un certo prezzo, una preziosa scatola di giada (pur sapendo che vale almeno venti volte di più) incontra la ferma e sdegnata opposizione della figlia Ester che si oppone vigorosamente a che il padre concluda quell’affare così sperequato. Ma all’autore interessa il risultato e, quindi, se Klaus è l’archetipo dell’ebreo avido, la figlia (evidentemente pure ebrea) è, viceversa, una creatura pura ed innocen-te e così compare all’innamorato Roberto, stereotipo dell’eroe italico e “littorio”: “Ed una graziosa giovinetta gli volò incontro, gli cinse il collo con le braccia, mentre egli depositava un timido bacio su quella fronte pura”. Verso la conclusione dell’avventura, l’usuraio ebreo ed il pirata cinese si uccideranno vicendevolmente con la pistola nel corso di un duello, risparmiando tale incombenza, non proprio degna dell’eroe senza macchia, a Roberto.
Il ragazzo non ama particolarmente quelle lande: “Un europeo difficilmente può farsi un’idea del rumore, del movimento dell’attività che regna in un kampong cinese. Vi si mangia, vi si vende, vi si compra, vi si fa la barba in mezzo ad un andirivieni senza pari di mercati ambulanti, di gente a piedi, a cavallo, in palanchino” ed anela ad un ritorno in Patria dopo aver abbandonato quel “mondo fantastico creato dalle torturanti allucinazioni di una fumata d’oppio”.
Tra i vari stereotipi dell'avventura salgariana” non mancano “la rapida nave (che) fendeva le acque gialle e melmose, mentre nella sua scia balzavano frotte di pescicani...”, la taverna del “Toro rosso”, un “mostro terrificante” (una piovra), le fogne percorse da torme di feroci topi affamati e l’immancabile maledizione (non di un faraone dell’antico Egitto, bensì “dell’abisso del Drago Nero”): “qualunque straniero oserà affrontare il Loung Pang verrà inghiottito”. “Sciocchezze”, rintuzza Roberto che si tuffa, ovviamente incurante del pericolo, a recuperare quei favolosi tesori che il mare custodisce. Immancabile il tenero lieto fine: Roberto, con il ricavato della vendita di parte dei vasi Ming e dell’ambra recuperati sui fondali dell’oceano, acquista la “Rondine” e veleggia verso i lidi dell’amata Patria abbracciato teneramente ad Ester, in un finale tanto profondamente romantico quanto profondamente crude erano talune descrizioni avventurose delle pagine precedenti. Quando Salgari “incontra” (letterariamente) Liala in un “unicum” che, probabilmente, mai più è stato ripetuto.
In occasione della mostra, di livello alto specularmente inverso al tragico disinteresse nazionale rilevato (due pagine del “Resto del Carlino”, in data 25 agosto 2011, e poco altro), venne approntata, a cura della suddetta Fondazione, una meravigliosa monografia stampata in sole 999 copie. Il volume, riccamente illustrato, rappresenta, probabilmente, l’acme delle indagini svolte sul complicato “corpus” delle opere di Salgari (di analoga importanza anche il volume di Vittorio Sarti edito, nel 1994, dalla “Sergio Pignatone editore” di Torino). Il nome Emilio Salgari non abbisogna di alcuna presentazione sia per quanti hanno letto i suoi romanzi sia per quanti, ragazzi negli anni ’70, hanno gioito e pianto per le vicende del suo più celebre eroe: Sandokan. Nel 1976 la Rai Tv trasmise lo sceneggiato, in 6 puntate, diretto da Sergio Sollima, “Sandokan” (interpretato da un efficacissimo Kabir Bedi) che catalizzò l’interesse nazionale proponendo le vicende della Tigre di Mompracem, dei suoi “tigrotti”, di Yanez, di Lady Marianna e di Sir James Brooke (un Adolfo Cieli perfetto in quel ruolo): milioni di telespettatori non si persero una sola puntata. Il successo, così eclatante, aveva un solido precedente: il grande ap- prezzamento di cui avevano goduto i personaggi di Salgari, fin dalle prime apparizioni dei suoi libri, alla fine dell’800. Il momento storico, va stigmatizzato, giovò non poco al successo dello scrittore torinese. Conclusosi, infatti, l’avvincente periodo storico delle grandi esplorazioni africane della fine del ‘800 (periodo che, per l’Inghilterra, aveva segnato un’importante estensione del proprio impero coloniale, mentre per la giovane Italia aveva rappresentato la sconfitta di Adua del 1896, il massacro di Vittorio Bottego sul Daga Roba nel 1897, la morte di Romolo Gessi nel 1881 e ben poche soddisfazioni), l’interesse mondiale volgeva il proprio sguardo verso l’oriente che, giusto per indugiare nell’ambito delle ovvietà, era sempre “misterioso”.
Jack London, allora giovane corrispondente di guerra durante lo scontro russo-giapponese, conclusosi con l’affondamento della flotta navale dello Zar Nicola II nella battaglia di Tsushima ad opera dell’ammiraglio Heihachiro Togo, aveva coniato il famoso slogan: “Attenti al pericolo giallo!” (non sisa perché, in seguito, attribuito a Benito Mussolini) ed aveva, ulteriormente, con i suoi articoli, catalizzato l’attenzione popolare europea verso il lontano “oriente”. Non fu immune da tale fascinazione anche Emilio Salgari che ambientò, peraltro senza esserci mai stato, gran parte delle sue vicende nell’estremo oriente. Giova, tuttavia, ricordare che lo scrittore torinese si concesse incursioni geografiche-letterarie anche in Antartide, Artide, Africa, Brasile, Cipro, Cuba, Egitto, Foresta Amazzonica, U.S.A. giungendo perfino a Cremona: nel suo romanzo di proto-fantascienza del 1907 “Le meraviglie del 2000”, compendio immaginifico di macchine fantastiche, razzi interplanetari, città sottomarine ed altre fantasticherie, si cita persino la città del Torrazzo. Come accennato, il successo letterario di Salgari fu enorme e, come facilmente prevedibile, una pletora di autori si dedicarono alla neonata moda “salgariana” cercando, spesso solo per meri intenti economici, di emulare l’autore torinese pur senza averne le doti letterarie. Alcuni, probabilmente a causa della scarsa tecnica letteraria o della banalità dei soggetti proposti, sono, perlopiù, stati l’oggetto di un ingeneroso oblio.
Tra i tanti, va ricordato Carlo De Mattia noto per esser stato, genericamente, uno “scrittore di letteratura per giovani”. Se sulla piattaforma “ebay” è, allo stato, presente qualche suo libro, a prezzo accessibile, del suo volume “L'isola dei Ming è risorta” del 1932 (Edizioni “La Prora” di Milano), viceversa, si son perse le tracce. L'unico esemplare noto di tale libro (di cui De Mattia ha realizzato anche le illustrazioni) è conservato presso il “Sistema Bibliotecario di Milano”. Eppure il volume è singolare risultando una perfetta - ed inaspettata - crasi tra il romanzo d’avventura esotica, che paga un pesante tributo al mondo salgariano ed ai suoi canoni e, al contempo, un romanzo d’amore che, pure, paga pegno alla letteratura “rosa” tanto diffusa negli anni ’30 (si pensi ad autrici quali Liala, Mura, Neera, etc.).
Le vicende avventurose, ambientate nel Mar della Cina, a Giava, a Macao, a Singapore hanno, quali protagonisti principali, l’italiano Roberto e la bellissima Ester Klaus; la loro storia d’amore fa da “canovaccio” a tutti gli stereotipi dell’avventura salgariana che sono, abbondantemente, presenti.
Tra i personaggi, caratterizzati da qualche venatura che oggi, nell’epoca dell’insulso “politically correct”, definiremmo “razzista”, primeggiano “il malese”, il capitano giapponese Soritomo Satsuma (che era sì un orientale ma del Giappone e quindi, nell’accezione dell’autore, meritevole di rispetto), Lao Tsun, il più famoso bandito dei mar della Cina e contrabbandiere d’oppio e l’usuraio, ovviamente ebreo, Geremia Klaus. Peraltro, l’avido e severo Klaus che vuol comperare da Roberto, ad un certo prezzo, una preziosa scatola di giada (pur sapendo che vale almeno venti volte di più) incontra la ferma e sdegnata opposizione della figlia Ester che si oppone vigorosamente a che il padre concluda quell’affare così sperequato. Ma all’autore interessa il risultato e, quindi, se Klaus è l’archetipo dell’ebreo avido, la figlia (evidentemente pure ebrea) è, viceversa, una creatura pura ed innocen-te e così compare all’innamorato Roberto, stereotipo dell’eroe italico e “littorio”: “Ed una graziosa giovinetta gli volò incontro, gli cinse il collo con le braccia, mentre egli depositava un timido bacio su quella fronte pura”. Verso la conclusione dell’avventura, l’usuraio ebreo ed il pirata cinese si uccideranno vicendevolmente con la pistola nel corso di un duello, risparmiando tale incombenza, non proprio degna dell’eroe senza macchia, a Roberto.
Il ragazzo non ama particolarmente quelle lande: “Un europeo difficilmente può farsi un’idea del rumore, del movimento dell’attività che regna in un kampong cinese. Vi si mangia, vi si vende, vi si compra, vi si fa la barba in mezzo ad un andirivieni senza pari di mercati ambulanti, di gente a piedi, a cavallo, in palanchino” ed anela ad un ritorno in Patria dopo aver abbandonato quel “mondo fantastico creato dalle torturanti allucinazioni di una fumata d’oppio”.
Tra i vari stereotipi dell'avventura salgariana” non mancano “la rapida nave (che) fendeva le acque gialle e melmose, mentre nella sua scia balzavano frotte di pescicani...”, la taverna del “Toro rosso”, un “mostro terrificante” (una piovra), le fogne percorse da torme di feroci topi affamati e l’immancabile maledizione (non di un faraone dell’antico Egitto, bensì “dell’abisso del Drago Nero”): “qualunque straniero oserà affrontare il Loung Pang verrà inghiottito”. “Sciocchezze”, rintuzza Roberto che si tuffa, ovviamente incurante del pericolo, a recuperare quei favolosi tesori che il mare custodisce. Immancabile il tenero lieto fine: Roberto, con il ricavato della vendita di parte dei vasi Ming e dell’ambra recuperati sui fondali dell’oceano, acquista la “Rondine” e veleggia verso i lidi dell’amata Patria abbracciato teneramente ad Ester, in un finale tanto profondamente romantico quanto profondamente crude erano talune descrizioni avventurose delle pagine precedenti. Quando Salgari “incontra” (letterariamente) Liala in un “unicum” che, probabilmente, mai più è stato ripetuto.
Bellissimo
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