AMBIENTE • Il presidente della Bissolati Maurilio Segalini dopo l’Osservatorio Tamoil di martedì
Vanni Raineri
L’azienda Tamoil ha avuto la possibilità di presentare ai cremonesi una relazione sui lavori di bonifica effettuati, ma alla Bissolati non basta.
L’occasione è stata fornita dall’Osservatorio Tamoil che è tornato a riunirsi dopo oltre due anni martedì, convocato dall’assessore comunale all’Ambiente Simona Pasquali.
La ricostruzione dell’azienda, oltre a fornire dettagli sulle operazioni di bonifica e dismissione degli impianti (sono state recuperate ben 30mila tonnellate di materiali ferrosi) ha illustrato i monitoraggi effettuati sulle acque, dichiarando che i risultati sono migliorati, rientrando nei limiti di legge. Arpa ha chiarito che per la verità sono stati rilevati, attraverso controlli propri, alcuni sforamenti.
Ma le critiche più grandi sono venute dalla società Canottieri Bissolati, adiacente all’impianto, rappresentata dal presidente Maurilio Segalini e dagli avvocati Claudio Tampelli e Giampietro Gennari. Questi hanno fatto alcune rilevazioni: non è possibile monitorare sempre le stesse aree da oltre 10 anni a questa parte, è necessaria una cadenza dei monitoraggi molto più fitta. In generale, il piano operativo va rivisto.
Questo e altro tiene a precisare il presidente Segalini, che parte però da un allarme infondato che vuole evitare.
«Partiamo col ribadire che non ci sono rischi sanitari legati all’inquinamento. Se la gente associa l’inquinamento alla nostra società può spaventarsi, ma non c’è ragione. Il disastro ambientale è avvenuto in passato, oggi le cose sono migliorate ma la storia non è finita: Tamoil stessa ha annunciato che sta reinvestendo in loco sulla sua unità produttiva e non sappiamo fino a che punto le protezioni siano a tenuta stagna».
E veniamo al piano operativo.
«Quello concordato tra azienda, Comune e altri soggetti risale al periodo precedente le 4 sentenze di condanna, quando la Tamoil era in una diversa situazione. È un piano di 12 anni fa che non può essere valido attualmente».
Mi faccia un esempio.
«Il vecchio piano prevede di misurare la presenza di idrocarburi nella falda posizionando piezometri di rilievo soprattutto nei pressi del fiume. Noi abbiamo effettuato misurazioni con strumenti nostri vicino all’argine, costituendo una cabina tecnica di regia, e i prelievi dicono cose ben diverse rispetto a quanto continua a sostenere Tamoil. Ciò nasce dal fatto che il Comune dà spazio a Tamoil, che trova appoggio in Arpa su un piano del 2009. Se è vero che la situazione è conosciuta, mi si spieghi perché sta passando ancora del surnatante (che abbiamo misurato fino a 70 centimetri sulla falda) a 20 anni di distanza dall’autodenuncia. Gli strumenti utilizzati poi non sono in grado di garantire un prelievo sufficiente. Inoltre l’inquinamento che continua alla falda va misurato con continuità, ogni giorno, poiché le condizioni cambiano. Insomma, è necessario un nuovo piano operativo, ma la commissione consiliare non è ancora stata messa in piedi, e lo stesso osservatorio è stato convocato dopo una lunghissima attesa».
Voi lamentate conseguenze pesanti.
«Ripeto, non si tratta di conseguenze di tipo sanitario: quelle le abbiamo avute solo nella prima fase, dal 2001 al 2007. Sono pesanti non perché minacciano la chiusura della società, ma perché ci obbligano a sostenere costi rilevanti, poi la necessità di rispettare le normative, come nel caso dell’estensione della palestra: se il terreno è oggetto di disastro ambientale, le conseguenze sono immaginabili. Un altro esempio di spese indotte è l’alimentazione delle nostre piscine, che sta avvenendo con acqua potabile, nonostante anche il pozzo sia stato dichiarato potabile, ma il disastro ci obbliga a questo, che comporta 40-50mila euro l’anno di costi».
Avere calcolato quanto vi è costata finora questa situazione?
«A livello documentabile, alcuni milioni di euro. Ai quali vanno aggiunti il danno psicologico e l’incertezza provocata nei soci. In ogni caso non è giusto che continuiamo a spendere noi per fare i rilievi».
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