Il Po, tra paura e attrazione

Te ricòordet? Ultima puntata del racconto “I figli del Villaggio Po” di Giorgio Barbieri 


di Giorgio Barbieri 

E poi c’era il Po, il fiume che distava da casa nostra meno di un chilometro. I nostri genitori ci vietava- no di arrivare alle sue sponde, ogni settimana arrivava la notizia di qualcuno annegato mentre faceva il bagno. Ma per noi era una tentazione troppo forte, una sorta di calamita naturale. E allora si partiva nel primo pomeriggio, controllando che i nostri genitori non fossero alla finestra. Si partiva piano ma poi si accelerava il passo sino quasi a correre quando iniziavano i campi dove adesso c’è la tangenziale. Si superava l’area della raffineria e si arrivava al fiume più o meno davanti alla canottieri Bissolati. Lì l’acqua correva veloce, faceva gorghi (da noi chiamati mulinelli) che la fa- cevano andare veloce come fosse in una centrifuga. Lì non si poteva fare il bagno, in pochi minuti ti saresti trovato trascinato a valle sin dopo il pennello di Livrini. E allora si andava più su, nella zona del mandracchio. In quella zona l’acqua non correva, la corrente era più verso il centro del fiume. E allora ci si spogliava restando solo con le mutande addosso. E pian piano ci si infilava nelle fredde acque (sì, perché la temperatura del Po non è mai stata troppo tenera) sino alla pancia, non di più. Molti di noi, me compreso, non sapevano nuotare. E la paura di annegare era tanta. Qualcuno più spavaldo faceva qualche bracciata evitando accuratamente di finire nel filo della corrente. Così il gioco durava poco. Ma si tornava a casa con la soddisfazione di avere sfidato prima il divieto dei genitori e poi il grande fiume. Più avanti il Po è diventato anche meta della mia passione di pescatore, una passione tramandata da mio nonno (il padre di mia mamma) e da mio papà. Da bambino venivo portato in bicicletta da mio padre fra boschi pieni di zanzare e per sentieri che si vedevano appena. Lui era bravo a pescare, uno dei pochi che cacciava i cavedani con una canna leggera e con la cavalletta viva sulla punta dell’amo. Io andavo con lui a catturare le cavallette (solo quelle marroni perché le verdi ai pesci non piacciono) sugli argini verso le ex Colonie Padane. Avevamo una bottiglietta di plastica a testa e un tappo forato per farle respirare. Gli insetti saltavano e noi li prendevamo al volo. Un vero divertimento. Mio padre lanciava il filo sulla corrente del fiume, non c’era bisogno del tappo o galleggiante. La cavalletta si appoggiava all’acqua e si muoveva, il pesce la vedeva da sotto e l’azzannava. Il gioco era fatto, ricordo esemplari di cavedani anche di un chilo e passa finire nel retino. Io non sono mai stato così bravo, ma ho mantenuto intatta la tradizione di mio nonno, cioè la pesca con il bilancino. Un palo (allora di bambù, oggi in fibra), una bella corda e in fondo un archetto di ferro con attaccata ai quattro lati una rete con fori larghi un centimetro, la misura consentita dalla legge. Pratico ancora oggi quel tipo di pesca, anche se la fauna ittica è calata e cambiata. Non è una pesca sedentaria, quella che stai seduto a terra ad aspettare che il pesce abbocchi. Qui si cammina, si gira per intero una lanca o si costeggia dove il fiume fa un giro d’acqua. L’impatto con il silenzio della natura, rotto solo dal gracidare delle rane o il canto degli uccelli, è straordinario. Ti sembra di vivere in un altro mondo e in un’altra dimensione. A volte resto per tre o quattro ore a pescare senza incontra- re altri esseri umani, lontano dal caos quotidiano. Se il paradiso è così posso dire che ci sono già stato. Storie e ricordi di noi figli degli anni Cinquanta, a metà strada fra la fine della guerra e il boom economico. Certamente più vicini al periodo della ricostruzione di un Paese che cercava di dimenticare a fatica un passato di miseria e dolori. Noi bambini o ragazzini di allora che si divertivano con po- co, che non avevano computer o videogiochi, che non andavano quasi mai al cinema, che mangiavano la carne forse una volta alla settimana. Che hanno trovato la via dell’oratorio tardi, dove abitavo io la chiesa (Cristo Re) è stata progettata nel 1958 e inaugurata qualche anno dopo. Noi cresciuti in strada. Oggi per la verità un po’ rimpiango quegli anni e quelle domeniche passate con gli amici allo stadio Zini a vedere la Cremonese. Una passione che non si è mai spenta e che ha portato me e Floriano Soldi a seguire come giornalisti le gesta di questa squadra. Ricordo ancora Floriano negli ultimi giorni di vita, malato, da poco papà, con la flebo nel braccio, chiedermi dei grigiorossi. «L’anno prossimo, quando torno allo Zini, organizziamo prima della partita un bel pranzo ai Granatieri con gli amici di un tempo. Mangiamo un bel piatto di maruba (marubini) caldi e poi tutti allo stadio». Allo Zini Floriano non ci andò più. Ma il ricordo di quella domenica di pioggia dei primi anni Sessanta avrà sempre un posto speciale nella storia della mia vita. 

(fine della settima e ultima puntata) 

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