Dopo la strage del ponte Morandi, massima allerta nel nostro territorio
Dario Balotta, esperto di trasporti: «Due giorni dopo l’incidente di Genova, Germania e Svizzera avevano già pronto un piano per verificare lo stato dei loro ponti». E noi?
di Vanni Raineri
Lo Stato deve amministrare direttamente i suoi beni oppure affidarli alla gestione privata? Il dibattito in corso, dopo la terribile tragedia di Genova, sembra molto superficiale: si tratta di decisioni da prendere sul lungo periodo, non certo sull’onda dell’emotività. Quando ci sono inchieste che smascherano politici messi ad amministrare la cosa pubblica tutti a chiedere l’affidamento al privato, poi c’è la tragedia che mette in luce utili esagerati del privato e tutti a chiedere che il bene torni in mani pubbliche.
Ne parliamo con Dario Balotta, esperto di trasporti e ambiente. Cremonese, che ora vive sul Lago d’Iseo, è stato segretario generale Fit Cisl Trasporti Lombardia e, fino a poco tempo fa, responsabile Trasporti di Legambiente. Ora è presidente dell’Onit (Osservatorio Nazionale Liberalizzazione e Trasporti) e tiene un blog sul sito del Fatto Quotidiano.
Allora Balotta, pubblico o privato? Lei ha scritto, dopo il crollo del ponte Morandi, che nel rapporto tra concessionario e con- cedente pubblico l’interesse privato è prevalso nettamente.
«Intanto ciò significa che esistono due interessi da contemplare. Per questo è necessaria la presenza di una macchina organizzativa che regoli il rapporto contrattuale. Questa c’è, e regola concessioni e convenzioni, in modo che ognuno abbia chiari i propri limiti. Nel caso di Genova è mancata la gestione del rapporto: il soggetto pubblico in particolare aveva in mano gli strumenti del controllo ma non li ha esercitati. La domanda è: perché?».
Già, perché?
«L’amministrazione pubblica è inefficiente e burocratica, spesso consociativa, e ha priorità soprattutto politiche, quando non parliamo di corruzione. Proprio oggi sul Fatto Quotidiano chiedo: dove erano i due consiglieri di amministrazione nominati in Autostrade per l’Italia dai ministeri del Tesoro e dei Trasporti quando si votavano bilanci con extraprofitti e dove si vedeva che le convenzioni che prevedevano le manutenzioni non venivano rispettate? Ci fossi stato io, non avrei approvato il bilancio e sarei andato a riferire al ministero denunciando l’inefficienza. Purtroppo lo Stato non ha
avuto la forza di negoziare, e questo non vale solo per l’Italia. Esiste una convenzione che prevede una remunerazione del capitale investito, ma qui siamo in presenza di un monopolio naturale senza rischi che prevede rendimenti annui dell’8%, un livello elevatissimo e ingiustificato. Quando puoi arrivare a tanto, è logico che arrivi a ritenerti il controllore. Se poi hai a che fare con una amministrazione pubblica, diciamo così, poco motivata... Io da 20 anni mi batto per una profonda riflessione sul sistema concessionario che coinvolge anche porti e aeroporti: c’è voluto un fatto così drammatico per sollevare il problema. Quindi ben venga che se ne parli, anche se è servito un momento così triste. Purtroppo ci approcciamo a queste dinamiche sempre in ritardo»
Vedendo quanto accade ai ponti gestiti dall’ente pubblico, per non parlare dell’edilizia scolastica, non sembra che lo Stato sia in grado di garantire un controllo più efficiente.
«La soluzione non è quella di nazionalizzare, ma comportarsi come si comportano tutti. Per prima cosa, al termine della concessione, non prorogare mai in modo automatico: fare una gara ti consente di fare un bilancio del rapporto instaurato, al contrario è un caso fideistico».
In questi momenti nessuno rileva che l’Italia da anni paga sanzioni alla Ue per il mancato rispetto della Direttiva Bolkestein, proprio quella che, dal 2006, disciplina i bandi per le concessioni in scadenza, ma che in Italia non è mai stata applicata.
«Purtroppo c’è una classe politica che di gare non vuol sentir parlare. Avendo abituato il sistema privato ai monopoli, gli stessi privati ormai avversano la gara. L’inefficienza dello Stato, e la politicizzazione dell’uso dei suoi rami, ha portato a far sì che il campo non sia più arabile, come si suol dire, ognuno crede nella possibilità di fregare l’altro. L’utente, e la sicurezza, si arrangino! Noi in Italia viviamo sulla strada: il 90% delle merci viaggia in strada, così come l’85% delle persone, mentre le realtà vicine hanno un rapporto di 70/30. Abbiamo trattato le autostrade come se questo rapporto sia ininfluente, e lo dice un ambientalista, ma le strade sono il nostro sistema vitale. Io vorrei ridurne la potenzialità, ma sono costretto a prendere atto della situazione. Sono dell’idea che lo Stato debba riformare se stesso nell’indirizzo, nel controllo e nella sorveglianza, eliminando le rendite di posizione e aprendo il mercato. Guaio nel guaio, abbiamo a che fare col 60% degli affidamenti in house, che significa che il controllo è assicurato, mentre l’obbligo della gara riguarda solo il 40% delle prestazioni, il che garantisce l’impresa dalle commesse. Per non parlare, limitandoci alle autostrade, del monopolio sugli autogrill, sui Telepass, una situazione interamente bloccata. Con questo dibattito che si basa sul vecchio schema pubblico-privato non si va da nessuna parte, ci sono nuovi strumenti. Negli atti secretati si nascondono le reali capacità del privato e del pubblico: il vero scandalo è che lo Stato si sia fatto buggerare così. Le tariffe sono tutelate da un meccanismo di scala mobile. Assurdo, considerato che ai lavoratori la scala mobile fu tolta 20 anni fa. E tutto ciò con una netta diminuzione proprio dei dipendenti delle autostrade, sempre più sostituiti con sistemi automatici di pagamento».
Lei stesso si definisce ambientalista. Ritiene che ci sia uno spazio anche per un “mea culpa” per chi ha sempre detto no alla realizzazione di nuove strade per facilitare lo spostamento di merce pesante?
«Vede, io ero per il no alla BreBeMi: c’è da 5 anni e non riesce a chiudere un bilancio in attivo e non paga nemmeno il mutuo alle banche. Ha un debito enorme con soli 25mila veicoli in transito al giorno. Semplicemente non era da fare. Le opere nuove non c’entrano nulla, va fatta una valutazione: se facciamo un’analisi di costi e benefici la Cremona-Mantova non può avere un bilancio positivo. E lo stesso vale per la Pedemontana e altre. Non ho nulla contro le opere, purché siano efficienti, sono per eliminare i colli di bottiglia e per una buona manutenzione, gestendo al meglio l’esistente. Il reticolo c’è già. Il problema è che ad esempio a Milano e hinterland 700mila persone usano il treno, mentre nell’area di Monaco di Baviera, simile per dimensioni e popolazione, il treno lo usano in un milione e 800mila. Sono scelte».
Ritiene che la tragedia del ponte Morandi possa avere ricadute sul dibattito che riguarda l’autostrada Cremona-Mantova e il completamento della bretella TiBre?
«Sicuramente lo avrà, anzi me lo auguro. Intanto è necessario che lo Stato faccia lo Stato. Pensiamo a un’altra anomalia tutta italiana: la Cremona-Mantova la vuole Centropadane che ha fatto nascere la società Stradivaria nella quale lavora una quarantina di persone che, non si facesse l’autostrada, non saprebbe cosa fare. Prevediamo i promoter delle opere pubbliche, mentre dovrebbe essere lo Stato a dire se serva o meno la nuova strada al termine di una analisi. Se c’è un promotore a dire quale strada devo fare, avrà pure un vantaggio sulla eventuale gara. Lo stesso discorso vale per la TiBre. Non serve, a meno che pensiamo che il suolo sia infinito. A bloccare la TiBre fino ad ora è stato il mercato, che non ci crede».
Lei ha scritto anche che il traffico a Genova andava contingentato, ma in quel caso i privati ci avrebbero perso soldi per i mancati introiti al casello. In realtà anche sui ponti sul Po del nostro territorio esistono da tempo divieti ai mezzi pesanti che nessuno ha mai fatto rispettare.
«Anche il pubblico è molto assente. A Genova, se non ci è arrivata Autostrade per l’Italia, avrebbe dovuto arrivarci il ministero. Il fatto è che se a Casalmaggiore chiude il ponte protesta qualche ambientalista e i problemi ci sono ma non sono enormi, mentre ci voleva coraggio a dire che a Genova in quel punto non si sarebbe più passati. Ora però ci ritroviamo la strada bloccata e 43 morti, senza aver potuto assicurare collegamenti alternativi, quando sarebbe bastato un divieto per i mezzi molto pesanti e qualche altra misura. Purtroppo non siamo abituati a gestire il traffico, come avviene invece in Germania, in Austria e in Svizzera. Da noi la strada è lasciata ai furbi, al consenso e alla protesta, e queste sono le conseguenze. Quanto accaduto ha messo il sistema davanti al problema, e il sistema deve cambiare».
Un’ultima cosa, tornando al ponte di Casalmaggiore. Ma le pare logico che un dissesto così evidente, con cavi spezzati e il grande degrado del cemento, l’abbia notato un agricoltore di passaggio che, bontà sua, ha allertato il Comune di Colorno?
«Questa purtroppo è la gestione delle province e dell’Anas delle nostre strade. Ormai l’Anas ha qualche migliaio di strade statali e il resto è delegato alle province (mentre al sud lo Stato gestisce gran parte delle strade), che non hanno il concetto di manutenzione. Si pensi che due giorni dopo l’incidente di Genova in Germania e Svizzera avevano già pronto un piano per verificare lo stato dei loro ponti...».
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