A Voltido resta la magia di “Novecento”

Bernardo Bertolucci, il regista scomparso lo scorso lunedì, scelse la cascina Badia per il grande affresco della realtà contadina del secolo scorso


di Vanni Raineri

Bernardo, come definisci d’istinto “Ultimo tango a Parigi”? Che film è?». «E’ quel film che mi ha permesso di fare Novecento. Quel successo fu così globale che potemmo fare quello che volevo, e decisi di fare il film “impossibile”, Novecento voleva essere l’ultimo film ideologico, una grande utopia». Nell’ultima intervista video concessa dalla sua abitazione romana (in occasione dell’anteprima del restauro di “Ultimo tango”), il grande regista morto lunedì nella sua casa romana aveva espresso così il suo estremo atto d’amore per il film e per la Bassa Padana, la terra delle origini. In “Novecento” Bertolucci ha narrato col suo stile la caduta del fascismo e la lotta di Liberazione attraverso le vicende dei due protagonisti, così come nel più recente “The Dreamers” ha narrato il ’68 parigino mediante tre giovani studenti. Ma in “Novecento” la vicenda storica è ben tracciata, in primo piano, e la Bassa, attraverso le scene girate nelle province di Parma, Mantova e Cremona è assoluta protagonista.
Bertolucci ha ragione: il successo di “Ultimo tango” gli diede il via libera ai finanziamenti degli studios americani, che in precedenza mai avrebbero finanziato un film considerato “di sinistra”. D’altra parte un affresco storico come quello che da tanti anni Bernardo aveva in mente necessitava di risorse economiche che potevano arrivare solo dall’altra parte dell’oceano. Un film in cui si sventolano bandiere del Pci ed un’enorme bandiera rossa tenuta nascosta durante il Ventennio fascista è trascinata dai contadini nei campi. In realtà non era un film comunista, certamente era un film antifascista. La faccia feroce è quella di Attila, interpretato da Donald Sutherland, che rappresenta la faccia del fascismo più violento, che terrorizza i lavoratori e nello stesso tempo rincuora la borghesia agricola che di quei lavoratori teme le prime istanze sindacali. Chi conosceva bene la realtà contadina ha trovato nel film troppa violenza gratuita, funzionale alla storia ma effettivamente eccessiva. 
Le radici padane sono ben visibili. Dopo la scena iniziale del 25 aprile, nella quale Attila è giustiziato dalle contadine assetate di vendetta, il flashback mostra (al grido “è morto Verdi”) la nascita dei due personaggi principali, interpretati da Robert De Niro e Gerard Depardieu, entrambi il 27 gennaio 1901, proprio il giorno della morte di Giuseppe Verdi. E nella Roncole di Verdi si trova la Corte delle Piacentine che ospita gran parte delle scene. 
Ma quando si trattò di scegliere un ampio fienile la scelta portò a Voltido, dove si trova la cascina Settecentesca chiamata Badia. Qui c’è uno splendido fienile rimasto come al tempo delle riprese (fu rifatto solo il tetto a seguito di una grandinata nel 2003), grande, che ricorda una cattedrale, dallo stile molto raffinato. Il centro della grande aia, a forma di spirale, è poi fatta in dislivello per battere il grano. 
La cascina Badia di Voltido ospitò l’intera troupe per oltre un mese, nell’inverno tra il 1974 e il 1975. Qui, sul fienile, è stata girata in particolare la lunga scena del banchetto cui segue il ballo, fino al momento dell’incendio (girato altrove) e della scena di sesso tra De Niro e Dominique Sanda. Il cast di quel film era davvero stellare: oltre ai citati De Niro, Depardieu, Sanda e Sutherland, comprendeva Burt Lancaster, Stefania Sandrelli e Alida Valli. Altre scene furono girate nel Casalasco, in particolare si ricorda l’uccisione del maiale al Fenilone di San Giovanni in Croce, dove si è mantenuto nel film il dialetto locale parlato dai contadini.

«Non conoscevamo il cinema, ci aspettavamo una telecamera, arrivòi l mondo»
Ave Rigolli, 83 anni e il ricordo di quarant’anni fa, quando nella sua cascina girarono le scene di “Novecento”


La cascina Badia ci accoglie immersa da una nebbia che sembra messa apposta per restituire il fascino degli anni Settanta, quando la nebbia c’era sul serio. Ci accoglie Ave Rigolli in Bellingeri (Berlinghieri è il nome della famiglia padronale nel film, e non può essere un caso), 83 anni, e subito la facciamo tornare con la mente a quell’inverno di 44 anni fa. «Erano per noi giorni tristi: mio marito era malato e sarebbe morto un paio di anni dopo. Proprio lui un giorno era a Piadena dove il veterinario gli chiese se fosse disposto a lasciare che la nostra cascina ospitasse un film. Noi non sapevamo niente del cinema, pensavamo che sarebbe arrivata a casa nostra una telecamera. Quindi disse di sì, ma la notte successiva non riuscì a dormire. Ci aveva ripensato, ma ormai aveva firmato, sarebbe servito un avvocato. Quindi non gli rimase che accettare. Altro che una telecamera: arrivarono decine di persone tra addetti e attori, con roulotte e grandi riflettori che illuminavano la cascina a giorno. Pensare che per girare in tutto una decina di minuti sono rimasti qui oltre un mese». 
Anche perché non tutte le scene girate sono state incluse nel film. «Ricordo in particolare la scena del ballo nell’aia: andavano a cercare le vecchiette del paese che si divertivano molto in quei costumi antichi. Ricordo anche quel tipo del Vho che chiamavano “Magascià” o qualcosa del genere, che ballava con la ballerina di stoffa legata al piede. Qui dovevano fare anche la scena dell’incendio: hanno costruito una scala apposta ma alla fine hanno deciso che il fienile era troppo alto. La paga per le comparse era buona, ma io non presi manco una lira, nonostante quel che si diceva in paese: ci diedero qualcosa solo per ripulire dopo la loro partenza». 
La cascina piacque molto a Bertolucci, che però fece alcuni interventi: «Fece restringere con alcuni accorgimenti scenici le finestre perché una volta erano più piccole, poi fece tinteggiare parte della cascina. E svuotò il fienile per le riprese». 
Cosa ricorda di quei giorni? «Io insegnavo a scuola, e di mattina non c’ero mai. Loro dormivano qui vicino, mi sembra di ricordare che fossero al City di Casalmaggiore, e arrivavano alle 10 di mattina. Ricordo che oltre a loro venivano parecchie tv straniere interessate alle riprese. Faceva freddo e soprattutto le attrici entravano spesso per scaldarsi, e poi per usare il gabinetto della casa, che preferivano a quelli delle roulotte. Spesso preparavo loro il caffé, e per la verità quando se ne sono andati non mi hanno nemmeno ringraziato. L’unica davvero carina fu Dominuque Sanda, che soffriva molto il freddo ed entrava spesso a scaldarsi. Ricordo Bertolucci con sempre addosso un grande cappello e una lunga sciarpa bianca. Ci salutavamo ma nulla di più: entrava come altri in casa per andare in bagno e per fare interviste. Lo ricordo come uomo dal forte carattere. Quella di “Novecento” era una storia cruda, non è che il film mi sia piaciuto molto, ho preferito “L’ultimo imperatore” e “Piccolo Buddha”». 
Grazie al film la vostra cascina ha avuto parecchi estimatori. Vi è stata richiesta per altre riprese? «No, però qui arriva sempre gente, anche con pullman. E’ sempre venuta per vedere i luoghi del film, e siamo stati menzionati in alcuni documentari. Anche il fratello di Bertolucci (Giuseppe firmò col fratello Bernardo soggetto e sceneggiatura, ndr) venne per realizzare un documentario facendo interviste sulle tradizioni antiche». 
La cascina sembra in buono stato. «Ma il lato che manca crollò dopo le riprese. Purtroppo non ci sono fondi per mantenere cascine come questa, che un tempo ospitava diverse centinaia di persone. Qualche anno fa la Lega della Cultura di Piadena propose di fare qui un museo della civiltà contadina, ma non se ne fece nulla».

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