Missione compiuta?
di Daniele Tamburini
Tanto tuonò che piovve, si potrebbe dire. Dopo mesi, anzi anni di travaglio (dai fasti del quasi 41% conquistato alle elezioni europee del 2014, alle sconfitte brucianti del referendum costituzionale del 2016 e delle politiche 2018), sembrerebbe che la quadra del cerchio non possa, o non voglia, riuscire al Pd, ridotto proprio male da molti punti di vista (tesserati, finanze, sondaggi, presenza sui territori), come si può leggere, tra gli altri, in una recentissima inchiesta de L'Espresso”. La sensazione è che quel partito si stia letteralmente sbriciolando. E non è una bella sensazione. È erede, quanto meno in linea di successione onomastica, di una grande tradizione, che ha concorso, anche, a fare grande questo Paese: da una parte il Partito comunista italiano, dall’altra la Democrazia cristiana. Nomi che, a pronunciarli ora, sembrano appartenere al giurassico. È senz’altro responsabilità dei tempi, accelerati, convulsi, disattenti, della politica e non solo. Ma il risultato è che, a prescindere da cosa ognuno di noi pensasse all’epoca della fondazione del Pd (era il 2007, non secoli fa), il disfacimento di questo partito priva quel che dovrebbe essere un normale dibattito democratico in un Paese democratico, e cioè la tenzone o tensione tra destra e sinistra, o tra centrodestra e centrosinistra, di uno degli elementi della dialettica. La sinistra “dura e pura”, si sa, è assolutamente residuale. Invece c’è una destra molto forte, la Lega. Ad oggi non saprei definire, in questo quadro, il Movimento 5 stelle, d'accordo, al momento, loro sono “altro”, un altro che rifugge dalla logica dei partiti. E' questo un bene? Un male? Non lo so, ritengo, ancora oggi, però che una “sferzata” fosse comunque necessaria. Tornando al Pd, sulle rovine un po’ spettrali di quella che fu una grande tradizione politica, civile, culturale si agitano lunghi coltelli, mosse a sorpresa, agguati, notizie lasciate trapelare e poi smentite, peggio che nel peggior vaudeville. Quel che è certo è che ci sono molti candidati alla futura segreteria, ma non abbiamo ancora capito bene quanti, e che i giri di valzer di Minniti sull’argomento dipendono dall’altro danzatore, quel Matteo Renzi che fu sugli altari, ma che ne è decisamente disceso; che forse vuole fare un partito nuovo, ma il giorno dopo smentisce; che richiama al senso di responsabilità, ma che è stato il primo vate della rottamazione, gettando via di tutto, buono e cattivo, e forse più il buono che il cattivo, a questo punto. Quel Renzi che non ha capito che in politica si deve mediare, non sfottere, non buttare via con disprezzo, non fare caciara. Quel che di buono, poco o molto che sia, ha fatto nei suoi anni di governo è azzerato, sparito, divorato da un’altra scena mediatica e simbolica in cui lui, sconfitto duramente in prima persona dal voto, non sa stare. Non ha la stoffa di chi dice: la sconfitta è stata terribile, rimbocchiamoci le maniche e, col duro lavoro, proviamo a ripartire. Anzi, è sempre più tentato dalla voglia di ricavarsi uno spazio da un’altra parte. Meglio primo console in un luogo piccolo, che un operaio costruttore in un luogo grande. Certo, non era solo: ha avuto emuli, lacchè, cortigiani, e anche qualcuno che ci credeva seriamente. Ma lui ha cercato tutte le luci su di sé, e mettersi al centro comunque comporta che la centralità permanga anche nella caduta: come accadde a Bettino Craxi. Adesso, quel partito è un disastro. Con questo clima, faranno il congresso a ridosso delle amministrative e delle europee. Incommentabile. Il rottamatore alla fine una cosa l'ha rottamata: ha rottamato il Pd. In tempi non sospetti avevo scritto che sarebbe andata a finire così. Scripta manent, e rimangono anche le parole di coloro che mi rispondevano: “Ma va là”.
Tanto tuonò che piovve, si potrebbe dire. Dopo mesi, anzi anni di travaglio (dai fasti del quasi 41% conquistato alle elezioni europee del 2014, alle sconfitte brucianti del referendum costituzionale del 2016 e delle politiche 2018), sembrerebbe che la quadra del cerchio non possa, o non voglia, riuscire al Pd, ridotto proprio male da molti punti di vista (tesserati, finanze, sondaggi, presenza sui territori), come si può leggere, tra gli altri, in una recentissima inchiesta de L'Espresso”. La sensazione è che quel partito si stia letteralmente sbriciolando. E non è una bella sensazione. È erede, quanto meno in linea di successione onomastica, di una grande tradizione, che ha concorso, anche, a fare grande questo Paese: da una parte il Partito comunista italiano, dall’altra la Democrazia cristiana. Nomi che, a pronunciarli ora, sembrano appartenere al giurassico. È senz’altro responsabilità dei tempi, accelerati, convulsi, disattenti, della politica e non solo. Ma il risultato è che, a prescindere da cosa ognuno di noi pensasse all’epoca della fondazione del Pd (era il 2007, non secoli fa), il disfacimento di questo partito priva quel che dovrebbe essere un normale dibattito democratico in un Paese democratico, e cioè la tenzone o tensione tra destra e sinistra, o tra centrodestra e centrosinistra, di uno degli elementi della dialettica. La sinistra “dura e pura”, si sa, è assolutamente residuale. Invece c’è una destra molto forte, la Lega. Ad oggi non saprei definire, in questo quadro, il Movimento 5 stelle, d'accordo, al momento, loro sono “altro”, un altro che rifugge dalla logica dei partiti. E' questo un bene? Un male? Non lo so, ritengo, ancora oggi, però che una “sferzata” fosse comunque necessaria. Tornando al Pd, sulle rovine un po’ spettrali di quella che fu una grande tradizione politica, civile, culturale si agitano lunghi coltelli, mosse a sorpresa, agguati, notizie lasciate trapelare e poi smentite, peggio che nel peggior vaudeville. Quel che è certo è che ci sono molti candidati alla futura segreteria, ma non abbiamo ancora capito bene quanti, e che i giri di valzer di Minniti sull’argomento dipendono dall’altro danzatore, quel Matteo Renzi che fu sugli altari, ma che ne è decisamente disceso; che forse vuole fare un partito nuovo, ma il giorno dopo smentisce; che richiama al senso di responsabilità, ma che è stato il primo vate della rottamazione, gettando via di tutto, buono e cattivo, e forse più il buono che il cattivo, a questo punto. Quel Renzi che non ha capito che in politica si deve mediare, non sfottere, non buttare via con disprezzo, non fare caciara. Quel che di buono, poco o molto che sia, ha fatto nei suoi anni di governo è azzerato, sparito, divorato da un’altra scena mediatica e simbolica in cui lui, sconfitto duramente in prima persona dal voto, non sa stare. Non ha la stoffa di chi dice: la sconfitta è stata terribile, rimbocchiamoci le maniche e, col duro lavoro, proviamo a ripartire. Anzi, è sempre più tentato dalla voglia di ricavarsi uno spazio da un’altra parte. Meglio primo console in un luogo piccolo, che un operaio costruttore in un luogo grande. Certo, non era solo: ha avuto emuli, lacchè, cortigiani, e anche qualcuno che ci credeva seriamente. Ma lui ha cercato tutte le luci su di sé, e mettersi al centro comunque comporta che la centralità permanga anche nella caduta: come accadde a Bettino Craxi. Adesso, quel partito è un disastro. Con questo clima, faranno il congresso a ridosso delle amministrative e delle europee. Incommentabile. Il rottamatore alla fine una cosa l'ha rottamata: ha rottamato il Pd. In tempi non sospetti avevo scritto che sarebbe andata a finire così. Scripta manent, e rimangono anche le parole di coloro che mi rispondevano: “Ma va là”.
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