INTERVISTA • Edoardo Raspelli escluso dalla conduzione di Melaverde: «Nessuna spiegazione». Al suo posto Vincenzo Venuto
Edoardo Raspelli |
di Enrico Galletti
Raspelli, lei da vent’anni entra nelle case degli italiani con il suo seguitissimo programma Melaverde, dopo più di 600 puntate...
«Sono 613, per l’esattezza».
Negli ultimi giorni, però, delle voci hanno messo in giro l’ipotesi di una sua uscita di scena.
«È vero. Domani, su Canale 5, andrà in onda la mia ultima puntata di Melaverde. Poi mi defilerò, al mio posto nelle prossime 7 puntate arriverà Vincenzo Venuto. È stata una decisione della produzione, non mia».
Cos’è successo?
«Sembrerà strano, ma da vent’anni a questa parte i miei contratti con Mediaset si rinnovano ogni sei mesi. Terminate le riprese della puntata di domenica, la settima della stagione, non mi avevano ancora detto dove saremmo andati per l’ottava, nessuno mi aveva ancora inviato uno straccio di copione. Mi sono venuti i primi dubbi».
E cosa ha fatto?
«Mi sono rivolto al produttore, Giacomo Tiraboschi, poi a Giancarlo Scheri, il direttore di Canale 5.
Mi siedo nel suo ufficio e mi dice: “Edoardo, ti comunichiamo che le prossime sette puntate le farà un’altra persona, poi si vedrà”. Non una parola in più».
Il motivo?
«Esigenze di produzione. Mi è stato detto così. Nel momento in cui parlavamo, la troupe che mi ha seguito per anni stava andando sul set a registrare con un conduttore che non ero io. Anche alla donna di servizio si danno otto giorni di preavviso».
Come si sente?
«Sono dispiaciuto, è inevitabile, ma mi sono messo il cuore in pace. A ferirmi è stata perlopiù l’assenza di motivazioni. Da vent’anni, a parte due settimane per un infarto e qualche puntata per una piccola infezione, sono stato in onda ogni domenica. Per farti un esempio, avrei preferito che mi dicessero: “Edoardo, scusaci, ma non piaci più, non sei più adatto”. Invece no...».
Quella che la lega a Melaverde è una storia che dura da molti anni.
«Siamo partiti nel 1998 su Rete 4 al posto di un buco nero nell’ascolto. Abbiamo fatto passi da gigante, io venivo dall’edizione po-meridiana del Corriere della Sera, il Corriere d’Informazione. Lavoravo con Tobagi, Feltri e De Bortoli, mi aveva assunto l’allora direttore Giovanni Spadolini quando avevo 22 anni, ora ne ho 69... Il primo giorno mi mandarono all’Università Cattolica, dove avevano trovato una ragazza morta nei bagni. Nel ’72 fui il primo cronista ad arrivare sul luogo dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Mi ricordo ancora quel giorno, in via Cherubini a Milano. Lo ammazzarono al civico 6, vicino a casa sua, mentre stava andando in ufficio».
E la tv?
«Nel 1994 mi chiamò Bruno Cavagna, un ex dirigente Rai passato a Mediaset. Mi disse: “Canale 5 vorrebbe fare una trasmissione rivale di Linea Verde, ti vorremmo come autore e conduttore”. Iniziammo a organizzare tutto, chiesi un elicottero per le riprese. A quel punto mi fecero fare un provino e lo mostrarono al Cavaliere. Berlusconi approvò ma poi si mise in politica e non se ne parlò più fino al ‘98. Cominciai da inviato, poi mi chiamarono alla conduzione. Stavamo mangiando cozze in alta montagna, una cena pessima, il produttore Tiraboschi si rivolse a uno degli autori dicendo di aver trovato il nuovo conduttore di Melaverde, poi mi indicò. Da ex cronista di nera sono molto attento ai particolari...».
Dall’altra parte, però, lasciava il Corriere d’Informazione.
«Dico sempre, senza vergognarmene, che sono più vanitoso che grasso. L’idea di fare televisione mi ha sempre attirato. La tv ti dà ansia, il conto alla rovescia è adrenalina pura...».
Si sente un po’ padre del successo di Melaverde?
«Assolutamente. Parliamo di una delle trasmissioni più longeve della televisione italiana. Siamo arrivati a toccare picchi di oltre 3 milioni e 900mila spettatori, con share del 23%. Dall’altra parte a quell’ora c’è il Papa, che se va male fa il 20%».
La sua prima puntata da conduttore?
«Avevo proposto di visitare Cà del Bosco a Erbusco. Se ci ripenso sorrido, arrivai sul set ben vestito: giacca e cravatta, camicia blu, di un’eleganza impeccabile. Peccato che fossimo in aperta campagna, con gli stivali e in mezzo a una vigna. Non fu una scelta geniale...»
Guarda la tv?
«Sembrerà strano, ma non la accendo quasi mai. Ho il brutto “vizio” di leggere una decina di giornali al giorno. Ci metto anche tre ore, e in ogni posto che visito compro un quotidiano locale. Sono un uomo all’antica...»
Negli ultimi anni, però, sono nati i reality di cucina in tv.
«Hanno un’ottima missione. A proposito, poco fa sono stato nel ristorante di Bruno Barbieri, lui non c’era. Molti sostengono che sia una pecca. Invece no: ho mangiato bene. La grandezza di uno chef è creare una squadra che risulti impeccabile anche in sua assenza. C’è una cosa, invece, che mi preoccupa...»
Quale?
«Noto che ultimamente puntano tutti sulla fantasia, sul colore, sull’accozzaglia delle componenti. È come una sorta di manierismo che ci porta a pagare a caro prezzo un cucchiaino di roba. Sia chiaro, non critico l’alta cucina o le porzioni ridotte, anzi: so che dietro si nascondono lavoro, studio e sperimentazione. Critico l’approccio: oggi si infila la liquirizia dappertutto, l’aceto balsamico industriale finisce in ogni angolo del piatto. Che poi... a me piace la cassoeula, ma anche Gualtiero Marchesi non mi dispiaceva. Ecco, le cozze in brodo di liquirizia magari no...»
Ha un’assicurazione sui sensi. È vero?
«Ho stipulato una polizza su gusto e olfatto. Mi costa tremila euro l’anno».
Da Cremona è passato più volte, anche con la sua troupe. Che idea si è fatto?
«Cremona è un centro strategico, ci sono molte aziende fiorenti come la Prosus, che ho scoperto io. Ho raccontato più volte il cuore gastronomico di Cremona, dove nascono formaggi e salumi eccellenti».
Ci torna anche da solo, qualche volta?
«Molto spesso. Nel cremonese c’è uno dei miei ristoranti preferiti».
Quale?
«Franca e Luciano, a Livrasco. Quando entri in quei posti il tempo si ferma. Quello è il mio tipo di ristorazione, quello dei padroni di casa che ti accolgono con il cuore in mano e ti danno tutto quello che hanno: il salame cremonese e quello mantovano, ad esempio, i più buoni in assoluto. E poi, quando ti siedi, ti raccontano i riti contadini, la stagionatura, quel clima di una volta diventato così raro, che ti fa sentire a casa».
Un personaggio cremonese che ricorda?
«Ce ne sono tanti. Mi viene in mente Franco Tommaso Marchi, della zona di Spinadesco. Un grande sommellier, il mio maestro. Mi faceva assaggiare vini di ogni tipo, imparavo sempre qualcosa di nuovo. Lavoravo al Corriere dieci ore al giorno, uscito da Via Solferino andavo da lui a tirarmi su...»
C’è, invece, una puntata di Melaverde che le è rimasta nel cuore?
«Un giorno visitai un agriturismo un po’ sperduto... aspetta, non credo di poterlo raccontare». Pausa.
«Ometterò i dettagli. Ero in questo posto che si raggiungeva solo a piedi, dopo una scarpinata, oppure a bordo di una jeep. Il proprietario era un ragazzo giovane, molto malato. Durante la puntata gli chiesi come vedesse il futuro dell’agriturismo dei nonni. La sua risposta fu: “Vorrei farmi una famiglia, dei figli, magari con il loro entusiasmo di bambini potrò continuare ciò che i nonni hanno avviato un secolo fa”. Mi sono messo a piangere, mi avevano spiegato che quel ragazzo avrebbe avuto vita breve. La puntata andò in onda. Una persona la vide e fece visita a quell’agriturismo pochi giorni dopo, mangiò e si fermò a dormire una notte. Da quella visita nacque l’amore, un matrimonio. Adesso anche tre bambini».
Dunque domenica sarà la sua ultima puntata. La guarderà? Qualche secondo di silenzio
«Non potrò vederla, probabilmente la registrerò».
E poi, cosa succederà?
«Chi lo sa, vedremo. Virgilio, nella Divina Commedia, diceva a Dante: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”. Mi sono serviti pure i sette anni di liceo classico».
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