L’INTERVISTA • Nelle librerie “Spegni quel telefono”, il manuale di galateo di Barbuto con prefazione di Feltri
di Federico Pani
Tono di voce alto, chiamate insistenti, mitragliate di messaggi su WhatsApp, sfoghi impuniti, telefonate che non finiscono più, lo sguardo abbassato sullo schermo durante una conversazione: comportarsi da cafoni, al telefono, è capitato un po’ a tutti. Normale: lo strumento ci offre così tanto da dare per scontato che chiunque capirà le nostre piccole scortesie. E allora tocca armarsi di pazienza e scrivere un galateo sul tema, magari un po’ ironico e agile da leggere, come ha fatto la giornalista e scrittrice Azzurra Noemi Barbuto. Il libro si chiama “Spegni quel telefono – Galateo per sopravvivere in Italia” (Piemme editore, pp. 126, € 14,90) prefatto da Vittorio Feltri.
Il bisogno di scrivere è nato per vendicarsi di un atteggiamento in particolare?
«Gli atteggiamenti sono molti, davvero. Quelli che mi colpiscono di più riguardano l’uso del telefono a tavola, in compagnia, o magari quando si è in due, in coppia, e la cosa che più si evince è l’indifferenza reciproca. Ma anche quando sul treno chi è seduto accanto a te parla per tutto il viaggio con un tono di voce esageratamente alto: anche in quel caso c’è indifferenza. Oppure, come mi è capitato, un viaggio con un’amica che, ignorando chi guida, parla al telefono durante tutto il tragitto; trattando, di fatto, l’altra persona come un autista. Ah, ecco: una cosa che non sopporto sono i messaggi vocali. Io credo che una nota vocale dovrebbe durare, al massimo, 10 secondi. Sennò diventa un dramma: siamo costretti ad ascoltare mugolii, pause, a volte urla, senza che ci venga detto quasi niente. Poche o tante parole usate male, senza dire quelle più importanti».
Ma come fanno i bambini a imparare il galateo se proprio i genitori sono i più sensibili al richiamo della prima notifica di Facebook o WhatsApp?
«Infatti i figli sono i primi a soffrire di questa condizione. La cena dovrebbe essere un’occasione imperdibile per dialogare, informarsi sulle rispettive giornate, mettendo lo smartphone da parte. Così, ci troviamo di fronte a un’altra occasione di dialogo sprecata. Dovremmo ricordare ai genitori che scrivere su WhatsApp o commentare i post su Facebook non significa dialogare».
Oltre a lasciare da parte il telefono a tavola, ci dà qualche piccolo esercizio da fare a casa tutti i giorni?
«Bisogna dosare le parole che si dicono al telefono, scrivere i messaggi in modo chiaro e conciso, porre dei limiti temporali di utilizzo dell’apparecchio ogni giorno. E poi tenerlo fuori dalla camera da letto: c’è chi preferisce andare a letto con il telefono che con il proprio partner».
Ma dobbiamo fare notare a chi ci sta intorno che con certi comportamenti sta davvero esagerando? «Sì, e non dobbiamo temere di farlo. “Spegni quel telefono” è anche un invito a valorizzare la nostra compagnia. E se qualcuno non la apprezza, non vale la pena passare tempo con lui o lei. Usciremo insieme un volta, ma non una seconda. In fondo, la questione è semplice: si tratta di rispetto, nei confronti degli altri e anche di noi stessi. Se durante un appuntamento la persona con cui sto si mette a guardare insistentemente il telefono faccio una cosa semplice: me ne vado. Dobbiamo ricordare che c’è un limite tra l’uso e l’abuso del telefonino. E molti di noi si sono fatti prendere la mano».
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