LA NOSTRA STORIA • Oggi l’anniversario della nascita del grande artista cremonese
Nacque a Cremona il 23 marzo 1922, morì a Roma nel 1990
Francesco Agostino Poli
“Era il conte Mascetti anche nella vita”, ha detto di Ugo Tognazzi la figlia Maria Sole. E ancora: «Diceva Mario Monicelli che se c’era un personaggio fuori dalle righe, tutti pensavano a lui perché amava sperimentare ed era capace di rischiare». Era nato a Cremona nel 1922 ed è spirato a Roma nel 1990. Dopo varie esperienze dilettantistiche, e vari mestieri, tra cui l’operaio alla “Negroni” e l’archivista, iniziò la carriera nell’immediato dopoguerra, scritturato dalla compagnia di Wanda Osiris. Negli anni successivi, ebbe molto successo sui palcoscenici di tutta Italia, ma ben presto arrivò l’impegno cinematografico.
Tognazzi è stato uomo di spettacolo a tutto tondo: la sua cifra recitativa poteva essere comica (e si ricordano, al di fuori dell’attività cinematografica, i siparietti televisivi con Raimondo Vianello, pieni di comicità ma conditi da spunti satirici non indifferenti, anche nei confronti del mondo politico), ma anche drammatica: pensiamo ai suoi personaggi ne “Il federale”, oppure ne “In nome del popolo italiano”. Ha dichiarato a questo proposito il regista Dino Risi, che lo ha diretto più volte: «Credo che fosse un attore più comico che drammatico, ma aveva una finezza tale che poteva fare tutto: aveva insomma quel “di più” che hanno i comici, così anche quando faceva parti drammatiche tirava fuori qualcosa in più degli tra del duomo di altri». «Uomo e personaggio prima, solo dopo veniva l’attore»:
così ha detto il regista Marco Ferreri, che fu Tognazzi a far esordire in Italia: nessuno lo voleva perché le sue regie coraggiose spaventavano, ma, è ancora Maria Sole Tognazzi a parlare, «papà capì che era un genio». Lo stesso non si faceva intimorire da ruoli non stereotipati: è stato l’omosessuale del Vizietto di Edouard Molinaro, l’aspirante terrorista de “La vita agra” di Carlo Lizzani, lo sfruttatore de “La donna scimmia” di Marco Ferreri. Tra i film in cui Tognazzi ha recitato spicca “La tragedia di un uomo ridicolo”, del 1981, con la regia di Bernardo Bertolucci. Fu presentato in concorso al Festival di Cannes nello stesso anno, e valse all’attore il premio per la migliore interpretazione maschile. Leggiamo questo ricordo del grande regista Bertolucci: «Nella nebbia dell’Italia di fine anni ’70, dei misteri del caso Moro, avevo bisogno di Ugo, che mi ricordava una figura di pietra del duomo di Modena o di Parma, un personaggio stiloforo che reggeva sulle spalle colonne e il peso di una chiesa romanica, però capace di andare in bici e fare il formaggio». E così lo ricorda Paolo Villaggio, riferendosi alla prima volta che, ragazzo non ancora inserito nel mondo dello spettacolo, incontrò Tognazzi, ad una cena: «In quell’occasione ha dimostrato, a me che non ero nessuno, un’affabilità, una disponibilità, una modestia, un autentico piacere di stare con noi invece che con l’entourage che l’avrebbe tenuto a far chiacchiere fino a tarda notte, che mi colpirono e mi piacquero molto».
Come molti grandi comici, Tognazzi – lo hanno detto i familiari – soffriva di depressione. Come non pensare, anche in questo caso, all’espressione dolceamara del conte Mascetti, capace di battute fulminanti, ma sempre con quel suo sguardo melanconico, un po’ assente, un po’ fané, come se fosse proiettato in speranze fallite e timori che solo lui pareva intuire.
Nei suo ultimo film, Tognazzi compare in “Tolérance”, di Pierre- Henry Salfati, nei panni di un nobile gastronomo gaudente. Il suo ultimo personaggio quindi gli somiglia, nell’amore per la cucina, alla quale si è sempre dedicato, pubblicando anche un libro di ricette, “L’Abbuffone”, edito da Rizzoli. Leggiamo le sue parole: “Nella mia casa di Velletri c’è un enorme frigorifero che sfugge alle regole della società dei consumi. Non è un “philcone”, uno spettacolare frigorifero panciuto color bianco polare. È di legno, e occupa una intera parete della grande cucina. Dalle quattro finestrelle si può spiarne l’interno, e bearsi della vista degli insaccati, dei formaggi, dei vitelli, dei quarti di manzo che pendono, maestosi, dai lucidi ganci.
Questo frigorifero è la mia cappella di famiglia. Capita che ogni tanto, di mattina, mia moglie mi sorprenda inginocchiato davanti a questo feticcio, a questo totem dell’umana avventura. Me ne sto lì, raccolto in contemplazione, in attesa d’una ispirazione per il pranzo... Questa immagine, indubbiamente paradossale, può darvi una idea di quanto ascetico sia il mio attaccamento ai prosaici piaceri della tavola, e quindi della vita; e di come, in fondo, io sia da considerare un martire del focolare, anche se sulle braci roventi, in genere, non amo disporre la mia persona ma, sia pur con infinita cura, bracioline di vitellino da latte. Ho la cucina nel sangue. II quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro. Io ho il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite. Per me la cucina è la stanza più shocking della casa. Conosco le entrate di servizio e i cuochi dei migliori ristoranti d’Europa.
L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere. E mi sento vivo davanti a un tegame. L’olio che soffrigge è una musica per le mie orecchie. Il profumo di un buon ragù l’adoprerei anche come dopo barba. Un piatto di fettuccine intrecciate o una oblunga forma d’arrosto, per me sono sculture vitali, degne d’un Moore”.
Chiudiamo questo ricordo con altre sue parole, che ben rappresentano la sua amara disillusione nei confronti del mondo, ma anche la sua umanità: “Amo il cinema non in quanto tale ma perché rappresenta la possibilità di raccontare storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli (...). Ciò che amo di più nel cinema è la possibilità di analizzare, attraverso i miei personaggi, la mediocrità dell’uomo».
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