Piazza Fontana, una storia di morti e di vite spezzate


LA STORIA • Sono passati 50 anni dall’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Dopo quelle vittime, la scia di morte continuò 

l'interno della Banca dell'Agricoltura dopo lo scoppio della bomba

di Francesco Agostino Poli 
“C’è già molta gente intorno al grigio palazzo su cui spicca in lettere luminose la gran scritta ’Banca Nazionale dell’Agricoltura’; tutto affumicato, cioè grigio e nero il pianoterra. Ma c’è molto rosso anche qui sul grigio e sul nero, che dal marciapiede, lento e vischioso, cola giù il sangue. E ci son chiazze di sangue davanti all’ingresso principale, c’è sangue sui mucchi di schegge di vetro ammucchiati ovunque, sulle tuniche bianche e i guanti di gomma degli infermieri; c’è sangue sulla faccia dei feriti più leggeri che nella farmacia accanto si fan fare le medicazioni d’urgenza.
Colano gocce scarlatte anche dalle ultime barelle che le auto- ambulanze inghiottono per poi correr via a sirene spiegate”. Con queste frasi colme di angoscia, la grande giornalista Camilla Cederna, il 21 dicembre 1969, descriveva sul settimanale “L’Espresso” la strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, avvenuta pochi giorni prima, il 12 dicembre, causando 17 morti e 88 feriti. Nella nostra storia repubblicana, c’è un prima e un dopo la strage di piazza Fontana. Si era aperta, dall’anno prima, nel 1968, una nuova stagione di protagonismo giovanile e popolare, e poi operaio, culminante nell’“autunno caldo” di quel 1969. Si chiedevano maggiore libertà, maggiore giustizia, maggiore equità tra le classi sociali; si mettevano in discussione stereotipi consolidati, si sfidava l’autorità, dei politici di sempre, dei padroni nelle fabbriche, dei padri-padroni in famiglia. Questo protagonismo, con le sue lotte, con l’esplosione di conflitti non solo nelle piazze, ma culturali e sociali a tutto tondo, fece molta paura ai settori conservatori del Paese: al fascismo ancora annidato in molti settori, ai settori più retrivi della Democrazia Cristiana, all’alleato americano, che, nello scacchiere della guerra fredda e dell’equilibrio tra i blocchi Usa e Urss, temeva di perdere il “bastione Italia” nel Mediterraneo. Serviva seminare dubbi, incertezze, paura nei confronti delle classi e delle forze politiche popolari. Serviva mettere paura nei confronti degli “opposti estremismi”, di destra e di sinistra, dipingerli come egualmente violenti e pericolosi per l’ordine costituito. Fu il tempo dello stragismo, fatto di moltissimi morti, di feriti segnati per sempre, nel corpo e nell’animo, da ferite immedicabili; di tentativi di depistaggio, di un chiarissimo substrato eversivo antidemocratico, di un intreccio vischioso e criminale tra gruppi neofascisti, servizi segreti infiltrati e forse anche la CIA, di sentenze giunte dopo anni e spesso contraddittorie le une rispetto alle altre.
La strage fu fascista, e lo dice una sentenza: nel luglio del 2005, la Corte di Cassazione stabiliva che fu opera di"un gruppo eversivo costituito a Padova, nell’alveo di Ordine nuovo”, un’organizzazione neofascista i cui esponenti sarebbero stati spesso protagonisti di stragi successive, da piazza della Loggia di Brescia a Peteano, gruppo “capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, che però non erano più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’assise d’appello di Bari. Chi ne siano stati gli autori materiali, non si sa. Forse, un giorno si apriranno archivi insospettabili e la verità emergerà. Forse. Quelle che sono certe sono le vittime. I morti di cui parla ancora Cederna: “Eran sensali, proprietari o fittabili di aziende agricole, bergamini o malghesi, coltivatori diretti, commercianti in mangimi, granaglie, macchine agricole o lubrificanti per trattori, che vengono dalla bassa e dal lodigiano, tutti quelli che ancora qualche anno fa portavano il tabarro e, se erano mediatori di bestiame, la frusta arrotolata sotto il braccio, ma ancora adesso hanno il portafogli a fisarmonica e il contratto lo fanno schioccando forte le mani prima di stringersele”. I feriti come Enrico e Patrizia Pizzamiglio, lui 12 anni, lei 15 anni, gravemente feriti e costretti a una riabilitazione che è durata anni, che, molti anni dopo, hanno scritto: “Le conseguenze [...] sul piano fisico, sull’attività pratica, sullo sconvolgimento psichico, sono state tremende e continue. Non siamo, tuttora, in grado di superarle o di dimenticare”. 
Ma ci furono altre vittime: perché, in un primo momento, la tesi che rimbalzò sull’opinione pubblica, avvalorata dalle forze dell’ordine, dal prefetto Mazza, da molta stampa fu che responsabili erano gli anarchici. Il prefetto di Milano Libero Mazza, su segnalazione dall’Ufficio affari riservati del Viminale, avvisò il Presidente del Consiglio Mariano Rumor: “L’ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”. Furono così arrestati molti anarchici, tra cui Giuseppe “Pino” Pinelli e Pietro Valpreda. Pinelli, un ferroviere di 41 anni, era stato partigiano ed era animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa: viene ricordato come un uomo mite, un non violento, amante della cultura, internazionalista e profondamente legato alla propria famiglia: la moglie Licia, esemplare per dignità e fermezza, negli anni a venire, e le figlie. Pino Pinelli fu fermato la sera del 12 dicembre stesso: tre giorni dopo, il 15 dicembre, era ancora nel palazzo della questura, con un fermo illegale, in quanto non convalidato dal magistrato, trascorse 48 ore. Venne sottoposto ad interrogatorio da parte del capo dell’ufficio politico della Questura di Milano Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, oltre che da altri poliziotti. Da quella stanza dove si svolgeva l’interrogatorio, da quella finestra, Pinelli precipitò, dal quarto piano, in un’aiuola della questura. Fu portato all’ospedale Fatebenefratelli, ma ci arrivò già morto. La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocata poco dopo, a cui parteciparono anche Allegra e Calabresi, fu di suicidio per il senso di colpa (“Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”): la versione fu ritrattata quando l’alibi di Pinelli si rivelò credibile. Si parlò allora, in modo francamente incredibile, di “malore attivo”: nel 1970, la sentenza del giudice Caizzi si conclude con un sibillino verdetto di “morte accidentale”; nel 1975, il giudice Gerardo D’Ambrosio (che troveremo poi protagonista dell’inchiesta “Mani Pulite”) sentenziava che Pinelli sarebbe stato vittima di un “malore attivo”: sentendosi male, invece che accasciarsi, si sarebbe buttato con un gran balzo, un vero e proprio tuffo, giù dalla finestra. Un balzo tale da non consentire a sei uomini di fermarlo. Il commissario Calabresi sarebbe stato ucciso tre anni dopo, dice una sentenza, giunta dopo un lunghissimo e controverso iter giudiziario, dagli esponenti di Lotta Continua Leonardo Marino e Ovidio Bompressi, con mandanti Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. 
Il tutto è un grande, tragico mistero italiano. E che dire della sorte di Pietro Valpreda, anch’egli anarchico, arrestato il 16 dicembre. Il “Corriere della Sera” titolò, il giorno successivo, che il “mostro” era stato catturato. Detto fatto: c’era un mostro da dare in pasto all’opinione pubblica. “Si volle un colpevole e lo si volle anarchico, ballerino e omosessuale: si volle che fosse Pietro Valpreda”, ha scritto anni dopo Sofri. Sta di fatto che Valpreda passò un vero e proprio calvario giudiziario, scontando anche alcuni anni di carcere, che si concluse nel 1981, con la formula dell’insufficienza di prove. Dopo un ulteriore lungo iter giudiziario (annullamento in Cassazione, assoluzione in appello), la prima sezione della Cassazione pose fine al procedimento, dopo 18 anni, confermando nel 1987 l’assoluzione per Valpreda. Venne riconosciuta, nel frattempo, anche l’innocenza di Pino Pinelli. Una storia, dicevamo, di morti e di vite comunque spezzate. 

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