Nel capannone messo a nuovo dove l’inclusione parte dal lavoro

LA STORIA • A Vicoboneghisio, la cooperativa sociale Storti aiuta i ragazzi disabili a trovare un’occupazione


VANNI RAINERI 
La cooperativa sociale Onlus Storti Maria si avvicina al 20° anno di attività e rappresenta ormai una realtà consolidata. Nacque nel 2002 da una costola della Santa Federici, per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti diversamente abili. Oggi è totalmente separata: spostatasi in fretta a Vicobellignano, da due anni ha trovato la nuova sede a Vicoboneghisio, in un capannone ristrutturato grazie a Fondazione Cariplo e concesso in comodato d’uso gratuito dalla famiglia Riva. Non è un caso che proprio Giordano Riva sia il vice presidente della Storti Maria (il presidente è Leopoldo Oneta), e con lui parliamo proprio dell’attività e di cosa va e non va nella legge che obbliga le aziende di medie dimensioni ad assumere persone con disabilità. «L’obiettivo qui nella nuova sede – attacca Riva – è creare un ambiente lavorativo protetto dove le persone traggano benessere che si traduce nel lavoro. Insegniamo loro il lavoro partendo dalla formazione e le regole per traghettare le persone a creare un’identità lavorativa». Mentre parliamo, una dozzina di lavora- tori sono all’opera. Lavorano 4 ore al giorno dal lunedì al venerdì, per un totale di 20 ore settimanali. Oltre a Riva ci sono due figure professionali più un amministrativo, e poi 12 iscritti alla legge 68, con invalidità superiore al 50%. «Oltre ai 12 assunti, che sono della Santa Federici e dei servizi sociali, offriamo opportunità di lavoro anche a svantaggiati di vario tipo, dagli immigrati della Spra ai carcerati, dagli ospiti del Centro Psicosociale ai segnala- ti da Sert e Concass». La disciplina è normata dall’art. 14 della Legge Biagi sul collocamento dei disabili, obbligatorio nelle aziende che superano i 15 dipendenti in proporzione col totale di assunti. Chi non adempie, va incontro a pesanti sanzioni e gli è vietata la partecipazione a gran parte dei bandi. A queste aziende è data anche la possibilità di assumere il lavoratore svantaggiato tramite cooperative sociali di tipo B, come appunto la Storti Maria, nei confronti delle quali l’impresa si impegna ad affidare commesse di lavoro in modo da coprire il costo dei lavoratori inseriti e i rispettivi costi di produzione. «Ed è quel che avviene qui – afferma Riva – dove facciamo tutoraggio, quindi insegniamo noi alla persona, fornendo maggiori garanzie alle aziende anche in caso di malattia». In pratica gli occupati lavorano alla Storti per l’azienda committente, che poi riceve il prodotto finito. «Noi facciamo assemblaggio e confezionamento, garantendo un’elevata qualità del prodotto finito. Abbiamo lavorato anche per multinazionali, ad esempio Ikea, la cui commessa è stata interrotta dalla chiusura del ponte, e lo stesso vale per alcune aziende oltre Po». La Storti lavora anche per aziende del territorio come Active, Ballarini, Consorzio Casalasco del Pomodoro, Fir (ora Nidec), Martini, Stiliac, Thermo Engeneering, Emiliana Parati, Cre e Crs. Ma nel caso di aziende che necessitano di lavoro specialistico? «In quel caso facciamo tutoraggio seguendo il lavoratore: lo portiamo in azienda, gli insegniamo la mansione e lo seguiamo». Un aspetto importante riguarda ovviamente il salario: «Dipende da tabelle del settore che vanno applicate. Ovviamente se l’individuo supera una certa soglia perde il diritto all’assegno di invalidità. Lo stipendio è fondamentale perché consente alla persona di avere autonomia». Scopriamo poi un tasto dolente, che riguarda proprio le aziende. «Purtroppo ci sono tante aziende che preferiscono pagare la multa piuttosto che assumere. Sono ben il 90% in Italia, in Lombardia il 75%, quindi gran parte del totale. Pagano una multa di 152,80 euro al giorno per ogni persona non assunta: conosco il caso di una azienda che ha pagato 300mila euro in un anno. Devono capire che noi chiediamo solo lavoro, e siamo in grado di assumere per conto dell’azienda». Crede che questo problema sia dovuto più a calcolo e a disinformazione? «Alle multinazionali, che provengono da Paesi che hanno un diverso welfare, spesso è più difficile da spiegare. Ci sono aziende che smembrano l’attività in più società per non arrivare al limite dei 15 dipendenti, ma sono tanti coloro che non conoscono l’opportunità. Ci sono spese accessorie da sopportare, si pensi ai bagni. Ma l’informazione sulla nostra attività spesso non è trasmessa alle aziende, noi siamo dei precursori». Ci salutiamo e uscendo scopriamo che mai Riva ha pronunciato la parola “disabile”, ma sempre “lavoratore” e “persona”. E’ evidente che l’assunzione di questi ragazzi ha un valore sociale che va ben oltre la produzione, ma non è questo il tasto che si vuole battere. Nessuna compassione, solo un richiamo alla sacrosanta dignità del salario. 

Commenti