“Banditi della Acqui, in alto il cuore”: l’8 settembre 1943


LA STORIA • Domani ricorre l’anniversario dell’armistizio, che segnò l’inizio della persecuzione tedesca e della Resistenza 


10 settembre 1943: soldati italiani cercano di contrastare i tedeschi presso porta San Paolo 

francesco agostino poli 

“Eurialo era un fornaio e Niso uno studente
scapparono in montagna all’otto di settembre ...” 

Quando si tratta di affrontare un argomento di storia, occorre rifuggire, il più possibile, dalle impostazioni manichee e dai giudizi tranchant. 
Il grande pensatore ed economista Antonio Gramsci scriveva al figlio, dal carcere fascista: “Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa”. 
Poiché riguarda gli esseri umani, la storia non può non essere letta attraverso le lenti della contraddizione, della coesistenza di molte verità, delle ragioni degli uni e degli altri. Così, un avvenimento come l’armistizio dell’8 settembre deve essere considerato, denunciandone le ombre (tante e terribili), ma anche i punti di luce. La storia è (dovrebbe essere) nota. 
Il venticinque luglio e l’otto settembre 1943 sono due date cruciali nella storia d’Italia. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo approvava con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto, l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, volto ad esautorare Mussolini dalle funzioni di capo del governo. La guerra accanto alla Germania nazista stava devastando l’esercito ed il Paese.
Poche ore dopo, l’ormai ex duce venne fatto arrestare e imprigionare dal re Vittorio Emanuele III. Il 25 luglio segna dunque la data della fine del fascismo come forma istituzionale sviluppatasi sin dal colpo di stato del 1922, con la marcia su Roma. Il fascismo si sarebbe riproposto, pochi giorni dopo, nella veste della Repubblica Sociale Italiana, detta anche Repubblica di Salò, una sorta di Stato fantoccio, sostenuto dalla Germania, che si macchierà di crimini vergognosi nei confronti di partigiani, ebrei, popolazione civile, al cui vertice sarà lo stesso Benito Mussolini, successivamente liberato dai tedeschi. Il maresciallo Pietro Badoglio, nominato dal re capo del governo lo stesso 25 luglio, si affrettò a reprimere gli entusiasmi popolari e annunciò che “la guerra continua”: ma il 3 settembre, a Cassibile, in provincia di Siracusa, il governo italiano firma un armistizio – detto “armistizio breve” - con gli Alleati, sbarcati proprio in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio. Tale armistizio - che sarà seguito, il 29 settembre 1943, dall’“armistizio lungo” – prevede clausole che significano la resa incondizionata dell’Italia. 
La sera dell’8 settembre 1943, il maresciallo Badoglio leggeva alla radio un proclama che annunciava al paese l’armistizio tra Italia e Alleati. L’accordo venne reso noto solo dopo pesanti pressioni da parte anglo- americana: gli Alleati, infatti, pretendevano che il governo italiano smettesse di tergiversare e annunciasse la resa dell’Italia. Merita leggere il proclama di Badoglio, volutamente ambiguo sull'atteggiamento da tenere nei confronti degli ex alleati tedeschi: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità verso le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Intanto, nel tempo intercorso tra i due proclami di Badoglio, i tedeschi ebbero modo di occupare quasi tutta l’Italia e di preparare i piani che avrebbero permesso, dopo l’annuncio dell’armistizio – interpretato dal Reich come “tradimento dell’alleanza” – di disarmare, deportare e uccidere, in alcuni casi, centinaia di migliaia di soldati italiani, colti completamente di sorpresa e abbandonati dalle istituzioni che avrebbero dovuto prepararli alla svolta.
In realtà, le trattative con gli anglo americani erano cominciate ad agosto, ma il re Vittorio Emanuele III, perfettamente in linea con un comportamento fellone che l’aveva distinto (non reagì alla marcia su Roma, firmò senza fiatare le ignobili e vergognose leggi razziali), era in contrasto con il proprio stato maggiore, propenso ad accettare la resa incondizionata: il re la giudicava un’esplicita condanna della monarchia e la rifiutava, pretendendo garanzie per la dinastia ed arrivando addirittura a chiedere il ripristino dell’impero coloniale italiano in Libia, Somalia ed Eritrea. Il Ministro degli esteri inglese Anthony Eden scrisse: “Il nostro atteggiamento verso Casa Savoia è improntato a cautela perché è così screditata che non esercita sugli italiani la sua antica attrattiva”. Dopo la firma del 3 settembre, gli Alleati si aspettavano la collaborazione dell’esercito italiano, ma il re ed i vertici militari ripresero a tergiversare. L’8 settembre, nel corso del consiglio della corona, la maggioranza era pronta a non adempiere agli obblighi assunti con gli Alleati. La decisione stava per essere messa a verbale, quando un ufficiale subalterno fece notare che la firma dell’armistizio era stata filmata e fotografata dagli americani: un dietrofront era improponibile. Vittorio Emanuele ordina quindi a Badoglio di rendere pubblico l’armistizio: Radio New York ha già trasmesso la notizia ed è cominciato lo sbarco a Salerno. Una prova vergognosa della monarchia e dei vertici militari, ma non è finita qui. La mattina del 9 settembre il re, Badoglio e alcuni esponenti della Real Casa, del governo e dei vertici militari fuggono verso Pescara: prima di partire, distruggono gli archivi del ministero degli esteri e della guerra, ma non danno alcuna disposizione ai ministri e ai comandi militari. Racconterà Rosa Perone Gallotti, cameriera personale dei sovrani, che la partenza fu un “pandemonio [...] Ministri, militari e gentiluomini volevano partire per primi, facevano ressa per la paura. Fu una vergogna, davvero”. 
Alle porte di Roma si registrano i primi scontri tra italiani e tedeschi, ma, in sei settimane, il governo non ha preparato alcun piano di emergenza. E’ l’inizio di una tragedia immane: i soldati italiani, rimasti senza superiori e senza ordini, sono facili vittime delle rappresaglie tedesche. Mussolini, prigioniero sul Gran Sasso, viene liberato da paracadutisti tedeschi il 12 settembre: definisce il re “il più grande traditore della storia d’Italia”, colpevole di aver fatto entrare in Italia un esercito di “ottentotti, sudanesi, indiani venduti, negri statunitensi ed altre varietà zoologiche”. 
Era lo sbando: i tedeschi imperversavano, molti soldati, appunto senza ordini né prospettive, gettavano via le divise e cercavano di raggiungere le case (e ci fu quello che viene oggi definito come il primo atto di resistenza di massa: le donne italiane si mobilitarono, mettendo in atto un maternage diffuso e consapevole, e fornirono di abiti, di cibo, di mezzi di trasporto, o nascosero, a rischio della vita, i militari sbandati). Molti, tuttavia, resistettero e ingaggiarono battaglia contro l’esercito tedesco. Combatterono non solo negli episodi più famosi (Porta San Paolo a Roma e Cefalonia, su tutti: in quest’ultima isola la divisione Acqui resistette e fu sterminata. I morti furono migliaia), ma anche a Piombino, a Gorizia, a Trieste, a Cuneo, a Savona, a Viterbo, a Bastia in Corsica, ad Argirocastro in Albania, a Spalato in Jugoslavia. La resistenza dei militari italiani fu vasta e coraggiosa: in molti rifiutarono di cedere le armi ai tedeschi e combatterono fino alla morte o alla cattura. Sono circa 20.000 i soldati italiani caduti dopo l’uscita ufficiale del Paese dalla guerra. Sono circa 800.000 quelli catturati dai tedeschi, in patria o all’estero, tra Jugoslavia, Francia, Albania, Grecia e isole dell’Egeo, Polonia, Paesi baltici e Unione Sovietica. Di questi, circa 650.000 mila finiranno, dopo viaggi interminabili, nei campi di prigionia tedeschi in Germania, in Austria e in Europa orientale. In 55.000 non sopravvissero ai trasferimenti ed alla condizione di internati, ancora peggiore di quella dei tradizionali prigionieri di guerra, poiché il regime nazista non li considerava tali, ma li classificò come “internati militari italiani” (IMI), privandoli così delle tutele garantite ai prigionieri dalla Convenzione di Ginevra, sottraendoli alla protezione della Croce Rossa Internazionale e obbligandoli al lavoro: un lavoro che verrà svolto in condizioni disumane, in totale spregio delle norme di guerra e di quelle umanitarie. Durante l’internamento, i militari italiani, soprattutto gli ufficiali, venivano incessantemente invitati, in cambio della liberazione, ad arruolarsi nelle forze armate tedesche e soprattutto nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana. La stragrande maggioranza degli internati rifiuta, dando vita a una forma di Resistenza “disarmata”. 
Molti tra quelli che non furono imprigionati salirono in montagna o entrarono in clandestinità “nelle belle città date al nemico” e, insieme a operai, intellettuali, artigiani, antifascisti della prima ora che erano riusciti a tornare in Italia o che erano stati liberati dopo il 25 luglio, e a tanti e tante giovani che avevano maturato una coscienza antifascista, dettero vita alla Resistenza, che si sostanziò nella Liberazione del 25 aprile 1945 e nella Costituzione repubblicana.

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