Insulti e chat da incubo: tutto il fango della rete


LO STUDIO REALIZZATO NEI GIORNI SCORSI DA SKUOLA.NET: «ALMENO UN RAGAZZO SU TRE NASCONDE MATERIALE DISCUTIBILE SUL PROPRIO SMARTPHONE»

 
ENRICO GALLETTI
I toni sono accesi, rasentano la violenza, in alcuni casi trovano il consenso della rete tanto da diventare virali e fare il giro del web in pochi istanti. E chi denuncia, e si espone, si sente spesso replica-re che «intervenire è difficile». Perché gli odiatori del web, gli haters o webeti, per dirla alla Enrico Mentana, sono protetti dalla corazza dell’anonimato. E tanto basta a rendere la loro azione impunita, i loro insulti associati a identità che manco esistono. Non attaccano tutti, scelgono i loro bersagli: dall’ex presidente della Camera Laura Boldrini alla cantante Emma Marrone, che qualche mese fa ha annunciato uno stop dalla musica per problemi di salute ed è stata ricoperta d’odio. La stessa melma che ha toccato proprio in questi giorni anche Liliana Segre, senatrice a vita sopravvissuta al lager di Auschwitz, bersaglio di almeno duecento insulti online al giorno a sfondo antisemita. La Procura di Milano ha fatto sapere che un’indagine è aperta già dal 2018 per molestie e minacce arrivate via social. Il fascicolo è a modello 44, contro ignoti, ed è coordinato dal capo del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili. «Gli haters sono persone per cui avere pena e vanno curate. Sono una persona civile, non conosco altro linguaggio che quello», ha detto la senatrice in un seminario di fronte ai ragazzi. Vanno curati. Fatto sta che la ragnatela d’odio che prima era poco più che un caso isolato ora comincia a spaventare. Per questo il dibattito ha subito un’importante accelerazione proprio in questi giorni. Dell’obiettivo di porre limiti al linguaggio d’odio in rete si discute anche fuori dalle aule parlamentari. Il regista romano Gabriele Muccino su Twitter ha scritto: «Subito, al più presto, occorre una legge che obblighi chiunque apra un account social a registrarlo solo tramite l'invio di un documento di identità. Sapremo solo così chi si nasconde dietro la rete commettendo reati penali sotto l'impunità dell'anonimato». Un'idea che è stata subito rilanciata da un gruppo di senatori del Pd e da un deputato di Italia Viva, Luigi Marattin, ma è stata bollata dalla rete come «inutile» e «censoria». Parlano i fatti. Dalla procura di Roma, nei giorni scorsi, è arrivata la richiesta di archiviazione della querela del rapper Fedez nei confronti di Daniela Martani, ex hostess di Alitalia ed ex concorrente del Grande Fratello, che aveva criticato i Ferragnez definendoli «idioti palloni gonfiati». La richiesta del pm è supportata dalla tesi che sui social si scrive «fuori da qualsiasi controllo», anche utilizzando «termini scurrili». Non si configura dunque il reato di diffamazione, in questo come in altri casi limite. I social generano mostri, verrebbe da dire. E la paura di molti è quella che un utilizzo così “malato” della rete arrivi a peggiorare sempre di più la società in cui viviamo. A parlare, in questi giorni, è un altro fatto di cronaca. Le forze dell’ordine hanno portato alla luce una chat intitolata The Shoah Party, un contenitore raccapricciante di materiale da film dell’orrore: inni all’Isis e al nazismo, insulti razzisti, video pornografici e pedopornografici, contenuti di violenza esplicita. Un gruppo WhatsApp gestito da ragazzini (l’amministratore aveva quindici anni), smascherato grazie all’azione di una madre che si è recata dai carabinieri a denunciare il figlio, spiegando di aver «scoperto l’inferno». Cosa contengono gli smartphone dei ragazzi, soprattutto quelli dei minorenni? Skuola.net ha deciso di porre la domanda ai diretti interessati, intervistando mi-gliaia di ragazzi tra gli 11 e i 25 anni. La conclusione: almeno un ragazzo su tre nasconde materiale discutibile sul proprio cellulare. I luoghi preferiti per lo scambio di contenuti di qualsiasi tipo sono le chat dei servizi di messaggistica. Sempre stando ai dati, il 60% usa soprattutto WhatsApp, un altro 35% per lo più Instagram. Su queste piattaforme, quasi tutti partecipano a chat collettive: escludendo il 9% che comunica in questo modo solo con i familiari, il 58% chatta in gruppo con i propri amici, mentre un terzo dei ragazzi partecipa a gruppi in cui ci sono anche sconosciuti. Conversazioni blindate, video pornografici, challenge pericolose e non solo. In queste chat, da cui genitori e parenti sono esclusi, ci si scambiano anche contenuti non appropriati. Si va dal materiale pornografico (65%) alle immagini di violenza (11%), dagli inni al nazismo/fascismo (8%) agli inviti a challenge o comportamenti pericolosi (7%) fino al bullismo (5%) e al razzismo (4%). L’indagine ha fatto luce anche sui motivi che portano i ragazzi a sentirsi legittimati a scambiarsi materiali così controversi. Oltre la metà pensa possa essere divertente e fonte di ilarità scherzare sugli argomenti sopra elencati. Mentre un 25%, a quanto pare, sembrerebbe interessato all’argomento delle discussioni. Il 13% lo ha fatto semplicemente per noia, il 7% ha seguito passivamente il gruppo. Gruppi, questi, in cui in più della metà dei casi (54%) si è entrati sotto invito di amici, o per lo meno di conoscenti (26%), mentre l’11% dei ragazzi è stato aggiunto da sconosciuti e addirittura 1 ragazzo su 10 afferma di esserne l’amministratore. Questo tipo di conversazioni avviene soprattutto in chat molto ristrette, quasi “blindate” (68%), forse perché il 70% sa perfettamente di muoversi al confine della legalità, sempre a un passo dal burrone, dove non si cade mai da soli.

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