The Blues Brothers, film cult per eccellenza

20/6/1980 • Esattamente 40 anni fa usciva nelle sale l’opera che consacrò definitivamente il mito di John Belushi


Federico Pani
Centro correzionale “Joliet” dell’Illinois. Un ufficiale giudiziario elenca gli oggetti da restituire all’ex-detenuto che ha di fronte: “Un orologio digitale Timex, rotto. Un profilattico non usato. Uno... usato. Un paio di scarpe nere. Una giacca di un abito nero. Un paio di pantaloni di un abito nero. Un cappello, nero. Un paio di occhiali neri. 23 dollari e 12 cents. Firma qua”. Gli occhiali in dotazione al completo sono Ray-Ban Wayfarer. Fuori dal penitenziario si ferma una Dodge Monaco Sedan della polizia. Dalla macchina scende un uomo vestito con lo stesso completo e gli stessi occhiali da sole. Le porte del carcere si aprono e compare il profilo di un ometto tarchiato. Le prime note di una canzone blues e i due si vengono incontro, rigidi come manichini, neanche fosse un duello western; si abbracciano. Con questa prima, immortale scena comincia il film “The Blues Brothers”, uscito negli Stati Uniti il 20 giugno del 1980.
La storia la conoscono tutti. L’appena uscito di galera Jake Joliet Blues e il fratello Elwood tornano nell’orfanotrofio dove sono cresciuti e scoprono che sta per chiudere i battenti a causa di 5mila dollari di tasse in arretrato; decidono di rimettere in piedi la loro band e guadagnare abbastanza per pagarne i debiti. Nonostante le mille disavventure, ce la faranno.
La band eponima nacque prima della pellicola. John Belushi (Jake) aveva conosciuto Dan Aykroyd (Elwood) che, oltre a lavorare a un programma TV per bambini, era proprietario di un club. Dan fece conoscere a John il blues. Fu amore. I due cominciarono a mettere in piedi un supergruppo musicale che avrebbe avuto come repertorio i classici del blues. Mancava solo una divisa riconoscibile. Si ispirarono all’abbigliamento del musicista John Lee Hooker (nel film appare in una scena, dove canta “Boom boom”): un completo serioso, stemperato dagli occhiali da sole, che serviva in origine ai musicisti afroamericani a combattere i pregiudizi dei bianchi. Nel 1978 i Blues Brothers si esibirono al Saturday Night Live col brano “Soul Man”.
Il Saturday Night Live è un leggendario varietà americano della NBC. Nacque nel 1975 per rinfrescare la TV americana. Condotto da giovani, apertamente anti-nixoniano, si racconta che negli studi aleggiasse un perenne odore di marijuana. Sul suo palco si esibirono comici come George Carlin o giganti della musica come James Brown, Aretha Franklin, Elvis Costello, Bruce Springsteen, Joe Coker, moltissimi altri ancora e, naturalmente, anche John Belushi, che fu prima di tutto un comico. Si contarono, in totale, 83 sue partecipazioni e, tra tutti, lo sketch più fenomenale fu l’imitazione di Joe Cocker. Si dice che Paul McCartney gli avesse chiesto di esibirsi privatamente al suo compleanno per una cifra astronomica, tanto lo faceva ridere quando si contorceva a terra cercando di rialzarsi mentre imitava il cantante britannico.
Belushi era nato a Chicago da genitori albanesi. A 29 anni, nel 1978, si era già conquistato un posto d’onore nel cinema americano, con la commedia “Animal House”, record di sempre d’incassi per il suo genere, nonché un posto di tutto rispetto nella musica, con un disco di platino per il primo album dei Blues Brothers: due milioni e 800mila copie vendute in pochi mesi. Un talento ciclonico, merito non solo delle sue forze. Bob Woodward, il giornalista del Watergate, che gli dedicò un libro d’inchiesta, “Wired”, “fulminato” (in italiano: “Chi tocca muore”), raccontò bene della smodata passione di John per la droga: gli permetteva di scatenarsi per ore ed eseguire numeri acrobatici, come i salti che si vedono nel film. Dato il peso, quasi un quintale, per 1,75 d’altezza, si trattava di performance al limite del possibile.
Anche The Blues Brothers fu una tempesta di droga, concentrata per lo più nel corpo di Belushi (e gli occhiali, vuole la leggenda, servivano proprio a mascherarla): la stessa droga che avrebbe lasciato orfano Elwood, il vero fratello Jim e un numero incalcolabile di fan. Morì in una stanza d’albergo il 5 marzo 1982 a Los Angeles. L’ultima sera della sua vita, la trascorse insieme a Robert De Niro e Robin Williams in uno dei soliti bagordi. Quella notte spese ben 5mila dollari in cocaina, dopo esserseli fatti anticipare dal suo agente, dicendogli che ci avrebbe comprato una chitarra. La dose letale, mista di eroina, gli venne iniettata dalla groupie Cathy Smith. Aveva 33 anni.
“Va disintossicato”, diceva il medico di scena durante le riprese, “altrimenti fategli fare più film possibili, perché non gli resta che qualche anno”. La morte di Belushi fu una fatalità, ma non casuale ed eternò la sua stella per sempre. Disse Dan Aykroyd, in un’intervista: «Il mio atteggiamento verso la cosa è duplice. Da una parte, penso: mi dispiace, amico, non ce l’hai fatta e non posso farci niente. Dall’altra, mi manca e soffro. Di recente, ho sentito una canzone che diceva “coraggio Jonny, ce la puoi fare / ancora un miglio, Jonny” e ho pianto». Se vogliamo essere onesti, il segreto fascino del film sta proprio nel mito del simpatico, brutto e dannato John Belushi.
The Blues Brothers è uno di quei film che spiegano bene l’espressione “di culto”. A metà tra una commedia demenziale e un musical, sviluppa degli sketch lungo un asse narrativo preciso. Da molti punti di vista, resta un film memorabile. Per la comicità, la musica, i cammei, la quantità di comparse, il numero di auto fatte a pezzi (un record che detiene tuttora). Il regista, John Landis, confezionò un film che non si prendeva sul serio dalla prima all’ultima scena, antesignano della comicità demenziale e, se ci pensate, riassuntivo allo stesso tempo dei generi precedenti, che mescola e deforma.
Landis era un democratico e non è un caso che il film si svolga sullo sfondo di una Chicago brutta e sporca, già sull’orlo della deindustrializzazione, dove l’unica comunità piena di vita è quella afroamericana. I bianchi sono al massimo degli zotici: ricordate il locale dove la band si esibisce per la prima volta ed Elwood chiede “Che genere di musica fate di solito?”. Risposta: “Facciamo tutti e due i generi: il country e il western”. Ecco: gli avventori del locale, tutti bianchi, sono dei bifolchi e i gestori dei mezzi imbecilli. D’altro canto, è un film che non mistifica nulla, nemmeno il potere salvifico della musica. Nessuno della band ha fatto fortuna: c’è chi cucina hamburger (Guitar Murphy e Lou “Blue” Marini), chi fa il cameriere (“Mr. Fabulous”) e chi suona davanti a dieci persone cover di pezzi inascoltabili (“Murph and Magic Tones”).
The Blues Brothers è uno di quei film di cui viene voglia di citare quasi ogni scena. La Cadillac scambiata per un microfono; Aretha Franklin che canta in ciabatte e indossa un grembiule macchiato e unto; Ray Charles che, cieco, spara con la precisione di un cecchino; la rete da pollaio dietro cui canta la band e contro cui si infrange una marea di bottiglie di birra; tutte le scene con i nazisti dell’Illinois; le ripetute aggressioni, con armi sempre più esplosive, della mancata sposa di Jake, interpretata da Carry Fisher. E, naturalmente, le scuse dell’ex galeotto, in un climax che termina con l’ormai mitologico ricorso alle cavallette.
Tra le scene da citare ci sono senz’altro anche l’inseguimento per le strade di Chicago e la caccia ai fratelli da parte di tutti i reparti dell’esercito, dalla cavalleria alla marina. E poi ancora: la cattura e il finale in prigione, con la canzone “Jailhouse Rock”. Ma il punto più celebre resta il concerto. Cab Calloway scalda il pubblico; parte la musica del Saturday Night Live; arrivano Jake ed Elwood, e nella sala cala il gelo. Belushi, attonito, dà il via: “uno, due… uno due tre”. Ed è il momento di “Everybody needs somebody to love”. Buon compleanno, fratelli Blues. E tu Jake, beh, manchi tanto anche a noi.

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