La peripeteia di Berretta: se l’epilogo non è scontato

GRANDI DIMENTICATI • Fu giornalista del Corriere della Sera e della Stampa, ma anche del Regime Fascista di Farinacci


Alessandro Zontini
Due anni or sono, la Biblioteca Statale di Cremona ha organizzato un’interessante e ben documentata mostra: “Si faccia un articolo di fondo…” dedicata al quotidiano “Il Regime Fascista” nonché alle altre pubblicazioni editate a suo corredo.
Il direttore de “Il Regime fascista”, Roberto Farinacci, è stato artefice di un fascismo a sé stante, spesso inviso allo stesso Mussolini, ma che gli consentiva di agire con una certa autonomia d’iniziativa, sia politica che culturale.
Peraltro, pur censurandone alcune scelte gravide di tragiche conseguenze (l’adesione incondizionata all’antisemitismo), Farinacci era riuscito a circondarsi di giornalisti ed autori di notevole rilevanza nel panorama culturale dell’epoca.
Alcuni di questi uomini, dopo la guerra, hanno proseguito con successo nella loro attività di scrittori e giornalisti (ad esempio Julius Evola, divenuto punto di riferimento per l’estrema destra italiana del secondo dopoguerra).
Altri, viceversa, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, sono completamente spariti dall’orizzonte culturale italiano che, pure, ha espresso tanti uomini di fine cultura ma altrettanti, di pari valore, ne ha dimenticati.
Tra i vari collaboratori di Roberto Farinacci, a “Il Regime fascista”, andrebbe recuperata la notevole figura di Alfio Berretta.
Catanese d’origine, Berretta, già a vent’anni, collaborava con Marinetti a “La Scalata”, rivista futurista di indubbia rilevanza nel tumultuoso panorama delle avanguardie dell’epoca.
L’autore ha scritto romanzi (per esempio: “Gli occhi senza lacrime” del 1931, “La via della gloria” del 1932, “Il richiamo della madre” del 1933, ed altri ancora), raccolte di brevi racconti, sceneggiature teatrali, commedie, raccolte di poesie (“Lontananze” autoprodotta e stampata in sole 30 rarissime copie e “Il canto del desiderio” in sole 70 copie), libri per l’infanzia (“Fiabe, bambini , fiabe” e “Storielle e burle”) ed altro ancora.
Berretta andrebbe ricordato anche, e soprattutto, per la sua prolifica attività di giornalista: è stato infatti cronista de “La Stampa”, del “Corriere della sera” e, come ricordato, de “Il Regime Fascista”. Inviato in Africa Orientale Italiana, nel 1935, ha curato vari servizi giornalistici dal quel remoto lembo del Regno d’Italia.
Catturato dai soldati del Commonwealth durante la seconda guerra mondiale, ha conosciuto in cattività il duca Amedeo di Savoia-Aosta di cui è stato, in seguito, biografo.
Poliedrico autore, tra i suoi lavori si annovera il singolare “Maschi e femine (sic)” stampato per la “Casa editrice Adriatica” nel 1933.
Il volume è molto raro: se ne conoscono, secondo quanto riportato dal sistema bibliotecario nazionale, sole tre copie conservate presso la Biblioteca “Casa Lyda Borelli” di Bologna, la Centrale di Firenze e la Braidense di Milano.
Si tratta di una raccolta di brevi racconti di carattere “amoroso” e risulta essere opera del tutto particolare: sia poiché scritta da un uomo che, seppur dotato di poliedricità intellettuale non comune, parrebbe, per storia personale ed inclinazione umana, poco propenso a narrare vicende di sentimenti turbinosi e passioni travolgenti, sia perché l’autore ricorre, in modo esasperato ma efficacissimo (ed anche, a tratti, divertente), alla “peripeteia”.
Questo procedimento narrativo prevede il ribaltarsi improvviso ed inatteso – per il lettore - delle vicende della narrazione, in particolar modo delle sorti del protagonista.
Gli esempi sono celebri: la parabola del “Figliol prodigo” (il figlio che torna dal padre il quale, anziché castigarlo come presagibile e, forse, auspicabile, allestisce un banchetto in suo onore), l’“Orestea” di Eschilo (laddove Clitemnestra uccide il marito Agamennone), innumerevoli racconti di fantascienza e, soprattutto i romanzi c.d. “gialli”, allorquando si svela l’identità dell’assassino (che quasi mai è il maggiordomo).
Maestro della “peripeteia” è stato anche Dario Argento. A differenza di quanto avviene nei film “horror” americani dove, fin da subito, è ben individuato il “mostro”, nei film del regista italiano le scene finali sistematicamente ribaltano qualsiasi convinzione che è stata ingenerata nello spettatore con conclusione (grandguignolesca) a sorpresa.
Alfio Berretta ha fatto propria questa tecnica narrativa riportandola a rarefatte atmosfere di turbinosi sentimenti amorosi che, spesso, sono così tenaci e violenti da apparire addirittura epici ma che, alla fine del racconto, svaniscono come un incubo alle prime luci dell’alba: oppure, viceversa, sbocciano inattesi.
“Maschi e femine”, peraltro, propone una figura maschile che, dai suoi racconti, ne esce svilita, sbeffeggiata e, addirittura, coperta di onta. La “femina”, viceversa, pare trionfare sulle vicende della vita, sull’imperscrutabile fato e sulla logica che, all’apparenza, non è più così inflessibile.
Il racconto “Ti aspetterò sempre”, che parrebbe avere qualche debito narrativo con il dramma di “Romeo e Giulietta”, propone due innamorati, la bella Rirò, la cui madre vuol veder convolare a nozze con il nobile e ricco (ma piccolo, calvo, miope e, quindi, impresentabile) Domenico Calabrò e il bellissimo Lello, biondo, prestante, poeta squattrinato. Son pagine connotate dal tumultuoso impossibile amore suggellato da un bigliettino: “Ti aspetterò sempre”.
Poi Rirò si sposa, “obtorto collo”, con Calabrò. La vita coniugale è infelice, ma un incidente priva la donna del (non) amato marito che muore sulla sua Isotta Fraschini.
Trascorso il “tempus lugendi”, Rirò si mette alla ricerca di Lello, coprendo in treno grandi distanze che affronta con il bigliettino conservato a mo’ di talismano. Poi lo trova: sposato, con una moglie gelosa ed insopportabile, padre di tre figli, “un uomo grasso, con i capelli che gli coprono il bavero della giacca, le mani macchiate d’inchiostro…”.
La bellissima e ricca vedova si allontana e, sul treno che la riporta verso la propria casa, strappa il bigliettino “lo riduce in minutissimi pezzi, stende la mano oltre il finestrino, la schiude al vento: il treno, ronfando, si lascia inghiottire dalla gola nera di un tunnel”.
Il lettore, che dopo pagine di tumultuosa passione, ambiva al lieto fine ed alla rinnovata unione d’affetto tra Rirò e Lello, finisce, viceversa, su un treno che ronfando è inghiottito nel buio di una “gola nera”. Anche il lessico non è casuale. Le tenere descrizioni d’amore tra Lello e Rirò lasciano spazio a termini crudi cui, a quelle, fanno da severo contraltare narrativo.
In “Solo tua”, Donata è alla vigilia di nozze, non volute, con un uomo che non stima e che ha approntato per lei una casa che le pare tanto “brutta, inelegante, volgare”. Esattamente come il marito, “che la trattava come una bimba strana, e la copriva di doni e fiori”. Donata prova orrore al pensiero che la prima notte di nozze il marito le avrebbe “fatto sentire il proprio desiderio” ed incontra, per l’ultima volta, il suo vero amore, naturalmente bello e senza un quattrino. Il matrimonio è vissuto come l’incubo peggiore ed il viaggio di nozze un mistero inesplicabile: i coniugi dormono in stanze separate, il marito è premuroso e gentile, più un maggiordomo che uno sposo. La sera, prima del commiato notturno, le bacia la mano con distacco e garbo. Per Donata, il viaggio si dipana, oscillando lentamente senza un apparente motivo, tra lo stupore per le nozze inusuali ed il tiepido rimorso per l’amore abbandonato: Firenze, Roma, Napoli e Venezia. Il lettore è sospeso tra la curiosità per la conclusione che pare, riga dopo riga, imminente ed il dolore della protagonista che, quasi, sente proprio. Poi la conclusione: a Venezia “in una sera di pioggia” lui le cinge il collo, lei profferisce un “Ti amo tanto” ed i due si baciano con inattesa passione, lasciando sgomento il lettore che attendeva chissà quale tragico esito.
Alfio Berretta, nei suoi brevi racconti, propone, quindi, una tensione narrativa tesa tra l’amore sognante ed il dramma ineluttabile che si riversano, all’unisono con interessante procedura narrativa, in un’inattesa conclusione astutamente tenuta in serbo da questo maestro della “peripeteia”, la cui rara e curiosa opera “Maschi e femine” dovrebbe essere riscoperta, specie in questi tempi di generosa monotonia ed approssimazione letteraria.

Commenti