Silvia, un rientro complicato dal Madagascar

 COVID • L’agronoma e cooperante cremonese Rota ha portato con sé i figli lasciando in Africa il marito e «un Paese devastato»

Benedetta Fornasari

Ospedali fatiscenti e al collasso, indisponibilità di tamponi e di farmaci anti-Covid, assenza di respiratori e assistenza sanitaria inadeguata. Queste le motivazioni che hanno spinto Silvia Rota, agronoma e cooperante cremonese originaria di Malagnino, a lasciare momentaneamente il Madagascar per fare ritorno in Italia. Una decisione maturata a seguito delle informazioni trapelate dalle fonti locali ma anche dalla Farnesina, che ha caldeggiato il rimpatrio dei volontari in servizio nella repubblica africana. Così Silvia, lo scorso 9 agosto, dopo una settimana di attesa dovuta a disguidi della compagnia aerea AirFrance, è riuscita a partire da Sakaraha insieme alle figlie Yasmine (4 anni) e Alice (1 anno e mezzo) mentre il marito Heriniaina, direttore della agenzia locale della Bank of Africa, è rimasto nella città malgascia per motivi lavorativi.
Silvia si è trasferita in Madagascar nel 2010 per coordinare un progetto agricolo promosso da una Ong di Reggio Emilia. Da dieci anni è impegnata in progetti umanitari nel sud della nazione, una zona gravemente colpita dalla siccità e dalla povertà, e dal 2017 fa parte del direttivo dell’associazione AsSOS Africa di Cremona. 
Qual è la situazione in Madagascar?
«Dopo i primi casi registrati intorno al 20 marzo il Governo ha imposto il lockdown nella capitale Antananarivo, ha vietato i voli internazionali, i trasporti nazionali e gli spostamenti regionali e ha chiuso tutte le scuole, le chiese e i luoghi religiosi. È stata imposta la chiusura di bar e ristoranti a partire dalle ore 20 ed è stato istituito l’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto. Le restrizioni sono rimaste in vigore fino a maggio dopodiché, per effetto delle riaperture e della circolazione di mezzi e di persone, i contagi sono subito aumentati, soprattutto nella città portuale di Tamatave, fino a raggiungere nel mese di luglio il picco di circa 600 casi al giorno. Dall’inizio di agosto invece, secondo notizie governative, i contagi sarebbero improvvisamente calati. Abbiamo deciso di rientrare in Italia perché amici, familiari e conoscenti, residenti in diverse parti del Madagascar, ci hanno informato delle condizioni in cui versano le strutture sanitarie che risultano sprovviste di personale, medicinali e attrezzature per la cura del Covid-19».
Paura o negazione? Come ha reagito la popolazione alla diffusione del Coronavirus?
«All’inizio della pandemia, le persone che presentavano sintomi non volevano recarsi all’ospedale per il timore di morire lontani da casa e di non poter eseguire il rito della sepoltura che in Madagascar è una festa, un momento sacro a cui partecipa tutto il villaggio. Va inoltre precisato che il distanziamento fisico è culturalmente e socialmente impraticabile per il popolo malgascio, fortemente legato alla vita comunitaria. Strette di mano e assembramenti sono infatti la normalità così come la frequenza dei contatti. A ciò si aggiunge la difficoltà a reperire i dispositivi di protezione individuale e i prodotti igienizzanti. Le famiglie numerose, composte da 7 o 8 persone, dispongono spesso di una sola mascherina in tessuto (quelle chirurgiche non sono alla portata di tutti!) che viene scambiata o utilizzata a turno. Gel e disinfettanti per la pulizia delle mani, essendo particolarmente costosi, si trovano soltanto nelle cliniche, nelle banche e negli uffici pubblici mentre all’esterno dei ristoranti e dei bar vengono collocati dei catini con acqua e sapone oppure dei rubinetti con una caraffa per detergere le mani».
Quali sono le reali conseguenze della pandemia e come è cambiata la vita?
«Lo Stato ha concesso aiuti soltanto nelle grandi città con la distribuzione di generi alimentari. Purtroppo, il lockdown ha avuto effetti devastanti per l’economia mettendo in ginocchio i principali motori del Madagascar: il turismo, il commercio e l’agricoltura. Hanno cessato l’attività molti alberghi e società di noleggio auto; hanno perso occupazione gli ambulanti e i venditori di strada così come hanno perso il lavoro gli operai delle miniere di zaffiri e i commercianti di carbone vegetale. La popolazione malgascia vive per lo più alla giornata e ora è impossibilitata a lavorare. Un altro grande problema, in particolare della zona sud-ovest, è la malnutrizione. Prima della mia partenza una azienda di Ravenna, la Tozzi Green, ci ha fornito una tonnellata di mais e una tonnellata di fagioli che abbiamo distribuito alle famiglie in difficoltà, ai bambini e agli anziani. È drammatica anche la situazione legata all’istruzione. I bambini, che non possono certo usufruire della formazione a distanza, non frequentano la scuola da marzo e si ipotizza una ripresa soltanto per la fine di ottobre». 

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