Dal Bloody Sunday all’Irlanda post Brexit

 21/11/1920 • Cent’anni fa l’azione dell’Ira e la reazione inglese a Croke Park. Michelucci ci spiega cosa sarà di quell’area

Federico Pani

Il 21 novembre di 100 anni fa, a Dublino, si verificò uno degli eventi di maggior rilievo della guerra anglo-irlandese: la prima “domenica di sangue”. No, non si tratta della celebre “Bloody Sunday” cantata dagli U2, avvenuta a Darry, in Irlanda del Nord, poco meno di cinquant’anni dopo. Le due stragi, oltre al nome e all’efferatezza, condividono un altro aspetto fondamentale: le profonde radici storiche. Per dipanare la complicata matassa che le avvolge, abbiamo chiesto di farci da guida a Riccardo Michelucci che, giornalista, è in Italia uno dei maggiori esperti d’Irlanda.
La storia dell’Irlanda sembra consista in un continuo tentativo di dominazione da parte inglese, spesso riuscito: dal 1177, quando Enrico II nominò suo figlio signore dell’isola, fino l’Union Act del 1800, che ne decretò l’annessione all’Inghilterra. Il lungo processo d’indipendenza dell’Irlanda, svoltosi tra Otto e Novecento, trovò sempre molti ostacoli sul suo cammino.
«Alle tappe ricordate aggiungerei che all’inizio del ‘600 entrarono in Irlanda anche gli eserciti di Elisabetta I, seguiti tempo dopo da quelli di Oliver Cromwell, che misero a ferro e fuoco mezza isola. Soprattutto, però, va ricordato che negli stessi anni avvenne la cosiddetta “Plantation of Ireland”, la colonizzazione del nord da parte di coloni inglesi e scozzesi di fede presbiteriana e anglicana: un ponte che, nonostante i tre secoli, ci porta direttamente alla dolorosa divisione dell’isola del 1921. Costretta ad abbandonare l’Irlanda, l’Inghilterra riuscì però a mantenere un troncone della sua dominazione, creando una maggioranza artificiale protestante nel nord del paese. Nei primi anni del Novecento, il grande impero britannico era entrato infatti in una fase di decadenza inarrestabile e l’Irlanda fu la prima a cercare l’emancipazione. L’anno della svolta fu il 1916, quando si consumò la Rivolta di Pasqua: un episodio fallimentare, che innescò però una reazione a catena, sfociata nella guerra d’indipendenza, di cui la domenica di sangue è uno degli eventi più rappresentativi. 
Arriviamo quindi a quel giorno, il 21 novembre 1920: da una parte, le forze dell’Ira (l’esercito repubblicano irlandese), guidate da Michael Collins; dall’altra, i gruppi militari inglesi. 
Fu una giornata luttuosa per Dublino. La mattina si svolse un’operazione coordinata da Michael Collins che portò all’uccisione di quindici uomini della famigerata “Cairo Gang” (nome del pub in cui erano soliti ritrovarsi), il cuore dell’intelligence e dello spionaggio britannico nella capitale irlandese. La rappresaglia inglese arrivò nel pomeriggio a Croke Park, il principale stadio dublinese di allora. L’esercito irruppe in armi durante una partita di football gaelico, cominciando a sparare sulla folla e sul campo; le vittime furono quattordici, tra cui due giocatori.
Più che la reazione inglese in sé – che va inserita in una logica di rappresaglie reciproche – ciò che colpisce di quei giorni drammatici è questo: mentre l’Ira cercava di colpire i gruppi militari e di polizia, il fronte inglese era rivolto a colpire perlopiù la popolazione civile. Del resto, questo metodo di repressione era stato adottato dai britannici soltanto un anno prima ad Amritsar, in India, quando l’esercito aveva sparato sulla folla, provocando quasi 400 morti.
Il culmine del conflitto anglo-irlandese fu raggiunto a dicembre con l’attacco dei mercenari britannici del “Black and tan” alla città di Cork. L’anno dopo, si giunse a un accordo, il “Govenrment of Ireland Act”, che sancì la divisione artificiale dell’Irlanda: sei delle nove contee del nord vennero staccate dall’unità insulare, con l’obiettivo di creare uno stato a maggioranza protestante (e settario), nonché un mostro geopolitico».
La soluzione di dividere in due l’Irlanda generò quindi un nuovo problema.
«E’ così. Del resto, la politica del “divide et impera” fu messa in atto dall’impero britannico anche altrove. Basti pensare ai confini tracciati in Medio Oriente, o al caso dell’India, dalla quale fu separato il Pakistan, generando caos e devastazione. L’Irlanda, tra l’altro, fu per gli inglesi il luogo dove sperimentare le forme di repressione del dissenso (controllo, violenze, torture), anche in epoca recente. È passata alla storia la Bloody Sunday, ma andrebbe ricordata anche la strage di Ballymurphy, avvenuta nello stesso anno e in piena notte, senza che nemmeno, come accadde a Derry, si stesse svolgendo una manifestazione non autorizzata per i diritti civili. I responsabili della strage, tra l’altro, appartenevano allo stesso battaglione della domenica di sangue, il 1° paracadutisti».
Superiamo i tragici eventi del 1972 e arriviamo all’accordo del 1998 con la cessazione delle ostilità. Brexit ora può riaprire il conflitto?
«Escludo la possibilità del ritorno di un conflitto aperto. Non ci sono più le condizioni internazionali per consentire uno scontro nel cuore dell’Europa. Lo sviluppo più plausibile, ancorché non immediato, è quello dell’unità. L’Accordo del Venerdì Santo del 1998 arrivò dopo un percorso quasi ventennale verso la pace, cominciato nel 1981 con la morte di Bobbie Sands (attivista politico e martire dell’unità irlandese, ndr), eletto simbolicamente al Parlamento di Westminster. Quello fu un momento decisivo, perché fu chiaro agli irlandesi che avrebbero potuto raggiungere i loro obbiettivi servendosi della scheda elettorale anziché delle armi.
Nonostante la Brexit, penso che si troverà una soluzione senza ledere il nervo scoperto dell’“ex border”. Del resto, parliamo di 500 chilometri che si snodano lungo corsi d’acqua e brughiera: un confine perlopiù evanescente e incontrollabile. I check point che lo controllavano non esistono più dagli anni ’90, smobilitati dopo il trattato di Maastricht e con la progressiva liberalizzazione dei movimenti delle persone e delle merci. Per quanto ci siano stati, in tempi anche recenti, episodi violenti legati alla nuova Ira, escludo il ritorno a forme di conflitto più dure.
Insomma: la divisione dell’isola, ormai, non ha più senso; un tempo, divideva una regione industrializzata da una rurale, una regione ricca (anche se connotata da feroci discriminazioni interne) da una contadina. Bene: ciò che era industriale ora non lo è quasi più, mentre la Repubblica d’Irlanda è ora, forse, la parte più ricca del paese. Per farsi un’idea, al tempo della riunificazione tedesca, esisteva un divario maggiore tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Gli unionisti del nord, che si sentono così visceralmente inglesi, non solo non vengono considerati tali da Londra ma costituiscono più un problema che altro. Certo, bisognerà pensare a un’unificazione che preveda una qualche autonomia locale, un po’ com’è avvenuto in Italia con i südtirolesi».
E’ notevole come un’isola così piccola e così a lungo sottoposta alla prepotenza di un paese vicino abbia saputo tenere salda la propria identità e la volontà d’indipendenza.
«C’è un adagio, in Irlanda, che mostra come questo popolo sia orgoglioso della propria cultura: gli inglesi li hanno colonizzati per secoli, è vero, ma gli irlandesi sostengono di aver a loro volta colonizzato gli inglesi attraverso la cultura. E in effetti, dopo Shakespeare, quasi tutti i grandi scrittori di lingua inglese sono stati irlandesi: Laurence Sterne, Bram Stoker, Oscar Wilde, James Joyce, e i Premi Nobel Samuel Beckett, William Butler Yeats, George Bernard Shaw e Seamus Heaney; ben quattro, in un paese che non conta nemmeno sei milioni di abitanti e che, eppure, è tanto ricco e vario nella sua storia e nella sua cultura».

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