Il flop di Quota 100 e uno scalino scomodo

 PREVIDENZA • Tra un anno si chiude il triennio della riforma che doveva superare la Fornero. Come risolvere il problema di equità?

Vanni Raineri

E’ stato uno dei provvedimenti vetrina del governo gialloverde, in verità voluto soprattutto dalla Lega dando la netta impressione di uno “scambio di approvazioni” col reddito di cittadinanza bandiera del Movimento 5 Stelle. Parliamo ovviamente di Quota 100, spacciata con troppo entusiasmo come la fine della riforma Fornero. Quota 100 è un provvedimento che aveva durata tre anni, e che scadrà il 1° gennaio 2022. I giudizi vanno dal negativo al disastroso, una parte di colpa è certamente dell’emergenza Covid ma il bilancio è in rosso sotto vari punti di vista.
Il governo ipotizzò, per questa forma di pensionamento anticipato, un costo di 18 miliardi di euro in tre anni. Si stimava di consentire a 300mila lavoratori di anticipare la pensione, e si fantasticava di tre giovani neoassunti ogni pensionato precoce. Salvini e Di Maio la presentarono come una staffetta generazionale, che anche (ma non solo) per la crisi dovuta al Covid è ben lontana dall’essere stata ottenuta.
Nonostante Quota 100 preveda tagli alla pensione modesti (praticamente sono ridotti solo proporzionalmente per il minor numero di anni di contribuzione), l’adesione da parte dei lavoratori è risultata modesta, vale a dire poco più della metà rispetto alle aspettative. Soprattutto al nord la gente ha preferito continuare a lavorare per assicurarsi un assegno pensionistico più elevato, ma pure perché l’adesione comporta il divieto di cumulo tra reddito e pensione, e chi ha scelto di aderire lo ha fatto spesso perché certo di potersi comunque garantire un assegno dignitoso. Come rilevano molti osservatori, a trarre maggior vantaggio dalla riforma, come afferma il sito la voce.info, “sono state le grandi imprese nel settore dei servizi, le quali hanno potuto evitare i costosi meccanismi legati ai fondi di solidarietà per trasferire il costo della gestione della forza lavoro sul bilancio pubblico”.
Il problema di Quota 100 non si esaurisce nei tre anni di durata, anche ammesso che non sia confermata (come pare evidente, anche per la mancata spinta della Lega uscita dalla maggioranza), ma si protrae oltre. Infatti il ritorno alla vecchia gestione crea uno scalino consistente. All’improvviso si passerà dalla possibilità di andare in pensione a 62 anni con 38 di contributi alla necessità di attendere i 67 anni di età e 42 anni e 10 mesi di contributi, il tutto nel giro di pochi giorni. Un diritto che svanisce improvvisamente e un grosso problema di equità nel trattamento dei lavoratori. E’ quindi necessario trovare una via d’uscita, e per farlo serviranno nuovi fondi, forse ricavabili dal tanto atteso Recovery Fund (la cui negoziazione in sede europea ha risentito proprio del “peso” di Quota 100). Si parla di una sorta di Quota 102 che faccia da cuscinetto, o dell’anticipo della pensione con 41 anni di contributi per qualche anno, per addolcire lo scalino.
Ma oltre quello scalino vanno ripensate le regole del sistema pensionistico italiano, e non sarà impresa facile.
Proprio giovedì l’Inps è intervenuto sull’argomento nel suo rapporto annuale spiegando i quattro fronti principali: “Si ravvisa la necessità di implementare maggiore flessibilità in uscita soprattutto di lavoratori usuranti e gravosi, accompagnata da una pensione di garanzia che vada a proteggere soprattutto chi ha carriere discontinue, rediti bassi, soprattutto di giovani che hanno iniziato le loro carriere lavorative nel sistema contributivo dal 1996“.
Il rapporto ha anche fotografato la situazione attuale delle pensioni italiane: “La fotografia al 31/12/2019 mostra che i pensionati Inps erano a fine anno scorso 16.035.165. L’importo medio mensile delle pensioni era di 1.563 euro (1.864 per gli uomini e 1.336 per le donne), più alto in media al nord, 1.711 euro, rispetto al sud, 1.410 euro. Quasi il 34% dei pensionati aveva redditi pensionistici inferiori a 1.000 euro mensili; oltre il 21% percepiva redditi pensionistici mensili tra i 1.000 e i 1.500 euro, mentre il restante 45% aveva redditi pensionistici oltre i 1.500 euro mensili (con un 8% che superava i 3.000 euro)”.

 

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