«Noi medici di famiglia, abbandonati»

CORONAVIRUS • Intervista alla dottoressa cremonese Francesca Caselani: «Il dottore a domicilio non esiste più»

Benedetta Fornasari
Camici bianchi inquieti. Cresce la protesta dei medici di medicina generale che denunciano il mancato potenziamento dell’assistenza territoriale e un carico di lavoro non più sostenibile. I medici di famiglia sono sul piede di guerra perché abbandonati e inascoltati dalle Istituzioni.
Tutta colpa del Coronavirus? La pandemia è una bomba che ha fatto esplodere tutte le criticità latenti del sistema di gestione territoriale del paziente Covid ed extra Covid, ovvero affetto da altre patologie. Il grido d’allarme è stato lanciato dalla Federazione di medicina generale Fimmg e dalle varie organizzazioni sindacali che hanno proclamato lo stato di agitazione della categoria insieme ai pediatri di libera scelta.
Abbiamo fatto il punto della situazione con la dottoressa Francesca Caselani, medico di medicina generale di origine cremonese, che ha prestato servizio per tre anni a Carpenedolo, in provincia di Brescia, e che ora opera nel comune di Corteolona (PV).
Com’è cambiato il ruolo del medico di base?
«La visione del medico di famiglia come medico della mutua, secondo la celebre interpretazione cinematografica di Alberto Sordi, è del tutto anacronistica. Il dottore che assiste a domicilio, che aspetta l’arrivo dei pazienti in ambulatorio cercando di accaparrarsi il maggior numero possibile di assistiti, è una figura che non esiste più. Nell’immaginario collettivo il medico di medicina generale è semplicemente l’intermediario tra l’utenza del territorio e l’ospedale, ma non è così. Noi ci occupiamo principalmente della gestione dei malati cronici, di quelli fragili e di prevenzione, a ciò si aggiunge un grosso carico di lavoro burocratico che sottrae tempo al lavoro clinico e per questo siamo in affanno, perché ci manca il necessario supporto gestionale e organizzativo. Io ho 1.500 pazienti, di cui circa 400 ultrasessantacinquenni e 500 malati cronici, un numero molto elevato di persone che necessitano quindi di una assistenza puntuale e continuativa. Certo, esistono realtà molto diverse tra loro per cui ci sono medici più isolati, che come me lavorano da soli e quindi faticano a fronteggiare le esigenze degli assistiti, e altri che lavorano presso poliambulatori dotati di un ufficio di segreteria e di un infermiere».
Quali sono i principali problemi che dovete affrontare?
«Il Coranavirus ha palesato tutte le problematiche accumulate nel corso degli anni: i tagli del personale, l’assenza di risorse e di investimenti, la medicina del territorio e i servizi di prevenzione e di igiene depotenziati invece che implementati.
Il vero problema è che siamo abbandonati perché le istituzioni fanno propaganda ma non ci aiutano nello svolgere il nostro lavoro. Mancano protocolli condivisi, linee guida chiare e omogenee per cui il paziente è disorientato perché alla televisione sente dire che possiamo somministrare i vaccini ed effettuare i test rapidi per il Covid, ma nella realtà la Regione non ci ha fornito il quantitativo adeguato - e richiesto - di dosi vaccinali e, ad oggi, non ci è giunta alcuna comunicazione ufficiale sui tamponi. A ciò si aggiunge che, soprattutto in Lombardia, dobbiamo fare i conti con una pesante carenza di medici di base. Mancano i rimpiazzi quindi tanti ambiti sono scoperti perché mancano dottori e quelli presenti non riescono ad assorbire i pazienti scoperti.
Esiste poi un grande, ma non secondario, problema strutturale che ha origine dall’ambito formativo e che si traduce in una mancanza di interesse per la categoria da parte delle istituzioni e in una totale assenza della cultura della medicina generale. Basti pensare che in Italia la medicina territoriale non è una specializzazione universitaria come nel resto dell’Europa, bensì un titolo conseguito mediante un corso regionale postlaurea della durata di tre anni (istituito nel 1992 per equipararlo a quello europeo), che permette di ottenere un diploma per esercitare la professione. All’atto pratico, invece, la medicina generale è una specializzazione a tutti gli effetti, a cui però manca un riconoscimento ufficiale determinato dalla dignità formativa universitaria».
Che cosa auspicate per il futuro?
«Se i nostri governanti fossero lungimiranti, riconoscerebbero il medico di base come l’attore principale, il perno del Servizio Sanitario Nazionale, che opera per sgravare le strutture ospedaliere di servizi che possono essere erogati direttamente al cittadino anche a minor costo. Mi riferisco a una possibilità di cura molto più efficace, organizzata e a vantaggio dell’utenza. Per esempio, esami di controllo fatti in ambulatorio, piuttosto che in ospedale, e refertati dagli specialisti con la cosiddetta telemedicina. Un cambio di direzione che porterebbe a considerarci come un manager della popolazione a cui offrire servizi ambulatoriali quali esami diagnostici (ecografie, elettrocardiogramma ecc.), prelievi del sangue oltre a prestazioni infermieristiche quali medicazioni e iniezioni. Ad oggi, invece, il sistema favorisce e premia la sanità privata, benché incapace di garantire l’efficienza di quella pubblica».

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