Alighieri Durante, detto Dante, il padre della lingua italiana

 Giovanna Frosini «A 700 anni dalla morte del Sommo poeta, scriviamo e parliamo la lingua della Commedia»

FEDERICO PANI
Nel 1321 moriva Dante Alighieri e a 700 anni da allora, le commemorazioni possono trasformarsi da occasione in occasione per capire perché Dante resti irrinunciabile per la nostra cultura. Cominciamo, allora, con una domanda cruciale: quanto deve a Dante la lingua che parliamo tutti i giorni? Lo abbiamo chiesto a Giovanna Frosini (nella foto), ordinaria di Storia della lingua all’Università per Stranieri di Siena e accademica della Crusca.
Perché, diceva Bruno Migliorini, possiamo dire che Dante è il padre della lingua italiana senza essere retorici?
«Uno studioso altrettanto importante, Ignazio Baldelli, usò per una lezione all’Accademia della Crusca un titolo bifronte: “Dante e la lingua italiana”/“Dante è la lingua italiana”. La qualifica di padre della lingua, diffusa anche nel sentire comune, è più che fondata. Con Dante, infatti, il volgare di Firenze compie un balzo prodigioso e inaspettato: la lingua volgare di una città diventava per la prima volta una lingua enciclopedica, capace di dire tutto, di esprimere tutto. Fu una scelta coraggiosissima: la cultura del tempo non solo usava il latino, ma pensava in latino. Non è azzardato dire che noi oggi scriviamo e parliamo la lingua di quel libro. Tullio De Mauro dimostrò che l’80% delle parole fondamentali dell’italiano – ossia le circa 2mila parole indispensabili per esprimersi nella comunicazione quotidiana – si era già formato tra Duecento e Trecento. Non solo: il 15% del lessico contemporaneo nacque o venne messo in circolazione proprio con la Commedia. Le cui parole hanno avuto, infatti, un altissimo tasso di sopravvivenza: otto su dieci continuano ad esistere. Tutti i giorni, del resto, senza nemmeno accorgercene, usiamo moltissime parole messe in circolazione da Dante. Certo, esistono dei veri e propri neologismi (detti “danteschi”), parole forgiate da lui in prima persona, come plenilunio, tetragono e antelucano. Poi, però, ci sono anche parole importantissime, come ascoltare, imparare, succedere e facile, che entrarono stabilmente nel lessico italiano grazia alla Commedia. Così come la parola disegnare (che però Dante usò già nella “Vita nuova”). Io la chiamo “funzione Dante”, questa capacità di essere riuscito a creare così tanto del nostro lessico quotidiano. Nessuno, da questo punto di vista, lo ha mai eguagliato».
Cosa pensa dell’insegnamento scolastico di Dante?
«Bisognerebbe riflettere a lungo sul modo in cui lo si insegna. Personalmente, ho l’idea che si esageri con il commento, con la sovrabbondanza di note. Credo sia necessario capire quanto basta per poterlo apprezzare. Se poi si riuscisse a mostrare il modo in cui Dante sceglie le parole e costruisce le immagini, la bellezza della poesia scaturirebbe tutta in una volta. “Noi che tignemmo il mondo di sanguigno”, dice Francesca nel V Canto dell’Inferno; ecco, bisognerebbe ricordare ai ragazzi quanto concreta suonasse allora l’immagine: tingere e sanguigno sono due parole tecniche del linguaggio dei tintori di allora. Dante costruisce sempre così le sue immagini, con parole reali e concrete. Combinarne gli elementi, tenendo i piedi nella realtà: questo vuol dire creare una lingua».

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