Lippi spiega come fare squadra e racconta aneddoti gustosi

Quella volta che davids. «Non si allenava bene, dissi a Moggi che l’avrei mandato via. Moggi lo chiamò e lo riprese, ma gli disse che io ero entusiasta di lui. Cambiò tutto»


Vanni Raineri
“Oltre le difficoltà: creazione, gestione e sviluppo di una Squadra vincente”. E chi meglio di Marcello Lippi è in grado di argomentare su un simile tema? E infatti questo era il titolo di una interessantissima conversazione con l’allenatore campione del mondo prima con la Juventus e poi con la Nazionale italiana, collegato via Zoom grazie all’iniziativa del Rotary Club Rodengo Abbazia, cui hanno partecipato altri club bresciani e soci del Distretto.
Parlando di calcio, e di quelle grandi emozioni vissute grazie alla Nazionale, si torna un po’ tutti bambini, e soprattutto si torna a quei tempi, come accaduto agli oltre 100 soci collegati, ognuno dei quali aveva ben presente dove si trovasse quel 9 luglio del 2006.
L’incontro, durato oltre un’ora e mezza, ha consentito a Lippi di raccontare la sua idea di squadra vincente, il calcio e lo sport come metafora di vita, e anche di raccontare gustosi aneddoti, alcuni dei quali inediti.
Prima di tutto la sua idea del ruolo dell’allenatore: «Non si vince con gli schemi ma con persone umili che mettono le loro qualità al servizio della squadra. L’allenatore vincente è quello che entra nella testa dei suoi giocatori. Il Mondiale del 2006 nasce due anni prima su questi presupposti. Per due anni siamo cresciuti, avevo calciatori e uomini leader. Fin dalle prime partite ho cercato di trasmettere le mie convinzioni nella gestione del gruppo».
Ed ecco il primo episodio citato, che risale ai suoi esordi alla guida nella Nazionale azzurra: «Ricevo una telefonata: mi dicono che un giocatore importante (Totti, ndr) non poteva rispondere alla convocazione perché infortunato. Inizia un tira e molla, parlo prima col medico sociale poi col giocatore che mi dice che gli fa male la caviglia. Gli dico che voglio che i giocatori siano sempre presenti, anche se infortunati, proprio per creare lo spirito di squadra. Da allora per due anni tutti gli infortunati sono venuti a Coverciano, addirittura una volta Gattuso si presentò con ingessatura e stampelle. Creammo un gruppo unito e compatto, tanto che seppe resistere anche a Calciopoli e ad altre polemiche, come quella di mio figlio Davide, che era procuratore con la Gea. Un gruppo talmente forte e convinto che che è riuscito a trasformare tutto ciò che arrivava dall’esterno in energia positiva. In Germania nessun giornalista straniero ci ricordava l’argomento Calciopoli, e partita dopo partita (le vincemmo tutte tranne un pareggio) crebbe la convinzione di vincere. Prima del Mondiale volli affrontare le più forti in amichevole: col Brasile non raggiungemmo l’accordo economico, però vincemmo 3-1 sul campo dell’Olanda di Van Basten che era imbattuta da due anni, e battemmo 4-1 a Firenze la Germania: tutto ciò creò una grande autostima».
A questo punto gli chiediamo un parallelo con il Mundial 1982: anche allora l’Italia usciva da un grande scandalo (il calcioscommesse) che invece che abbattere compattò la squadra, nonostante la stampa furibonda. Anche il grande Gianni Brera chiese agli azzurri di non partecipare per evitare figuracce. Sembra che noi italiani abbiamo bisogno di fare gruppo sentendoci soli contro tutti.
«È vero - sorride Lippi -, ci sono analogie, ma anche allora la squadra era fatta di grandi calciatori. In caso contrario, come accadde a noi, non avrebbero vinto. Però è vero che in generale siamo un popolo che dà il meglio di sé in momenti negativi reagendo positivamente contro chi ci massacra. Anche Mancini oggi mi pare inizi a creare una squadra di ottima prospettiva».
Anche alla Juventus Lippi creò un gruppo vincente, conquistando Coppa Campioni e Intercontinentale. Qui l’aneddoto riguarda un cremonese, Gianluca Vialli: «Mi chiamò la Juventus e l’appuntamento era fissato presso la sede della Toro Assicurazioni. Arrivo e il primo che mi raggiunge è Vialli che mi dice di volermi parlare: voleva tornare alla Sampdoria. Gli dico: sei fuori di testa? Credi che io arrivi qui e per prima cosa permetta al migliore centravanti d’Europa di andarsene? Sei tu a dover dare una mano a me. Intanto inizia a indossare i calzini come i tuoi compagni e a mettere la cravatta».
La differenza tra campioni e fuoriclasse secondo Lippi: «Di entrambi ne ho avuti parecchi. Al campione la natura regala doti importanti, ma lui di suo non ci mette niente per le vittorie della squadra. I fuoriclasse, in campo e fuori, sono determinanti. Cannavaro nel 2006 è stato un fuoriclasse, anche se non dotatissimo tecnicamente. Era un leader, e un leader non si sceglie, lo si diventa giorno per giorno sul campo anche se in silenzio, come ad esempio nella mia Juve Peruzzi. Il più bravo che ho allenato è stato Zidane: in allenamento faceva cose incredibili, con lui non avevo certo bisogno di schemi».
Dunque, si torna all’importanza del gruppo: «L’allenatore deve dare la stessa importanza a tutti. “Nessuno di noi è forte come tutti noi” è la frase che ho sempre detto alle mie squadre. I problemi veri non vengono mai dall’esterno: se sei compatto li respingi sempre. Il problema sono le gelosie interne, e qui il ruolo dell’allenatore è importante: meglio mandare via chi rovina il gruppo».
E qui un gustosissimo aneddoto: «Nei primi mesi che stava con noi, non mi piaceva coma Davids si allenava e si comportava. Andai da Moggi e gli dissi che se avesse continuato così l’avrei mandato via. Moggi lo convocò in sede ma il venerdì, tre giorni dopo, per lasciarlo a rimuginare sui motivi della convocazione. Lo incontrò e gli disse: “Non mi piace come ti alleni, anche se Lippi parla benissimo di te”. Davids mi ringraziò per la stima e da quel giorno cambiò atteggiamento. Le qualità di un gruppo vanno costruite».
Qualcuno dice: lei mister ha vinto anche in Cina, è il Mario Draghi del calcio. «Un grande complimento. Trattai per un anno, non ero convinto, ma l’offerta era gratificante sotto ogni punto di vista. Allenavo il Guangzhou Evergrande, la loro Juventus, che vinceva in Cina ma nella Champions asiatica al massimo era arrivato ai quarti di finale. Dissi al boss che per farcela avremmo dovuto acquistare stranieri, e puntai sul pressing, tanto che ci paragonavano a una squadra europea. Vincemmo per tre anni di fila il campionato e pure la Champions asiatica, perdendo il Mondiale per club in semifinale col Bayern di Guardiola. Tornai in Italia e rimasi fermo per un anno, poi il boss dell’Evergrande mi richiamò».
E qui un altro gustoso retroscena: «Tornai, ma poco dopo il boss mi chiamò costernato e mi chiese di allenare la Nazionale cinese. Gliel’aveva chiesto il governo, e lui non poteva dire di no. Accettai, ma lì gli stranieri non li avevo, nonostante alcuni buoni risultati. La più grande soddisfazione me la diede il ministro dello sport, che mi disse di non aver mai dato loro l’impressione di aver accettato l’offerta per soldi».
Difficile ripetersi, anche in Nazionale. «Nel 2010 feci un errore. Dopo il Mondiale 2006 mi dimisi, schifato da certi atteggiamenti aggressivi, ma fui richiamato dopo l’Euro 2008. I giocatori mi chiamarono, e per un debito di riconoscenza mi lasciai condizionare. Pagai gli infortuni di alcuni big (Buffon, Pirlo, De Rossi) e il mio errore di richiamare alcuni campioni uscenti». Per la cronaca, finimmo ultimi in un girone di qualificazione sulla carta facile.
Provocazione: per allenare si chiede il patentino, perché non è necessario per i politici? Lippi non si sottrae: «Tutti parlano della necessità di fare squadra, poi però all’opposizione si va in direzione contraria. Ora chi era all’opposizione è disponibile ad appoggiare Draghi, che è la persona più indicata in questa situazione, che però vedo difficile. Credo probabile che si affidi soprattutto a figure tecniche».
Chiudiamo tornando al calcio con altri due aneddoti. Il primo riguarda Collina: «Alla fine di un Parma-Inter Crespo si buttò e lui assegnò il rigore dell’1-1 che ci impedì di vincere. Mi arrabbiai, entrai nel suo spogliatoio senza bussare e gli dissi che ero convinto che lui mi desse contro perché eravamo entrambi di Viareggio e non voleva che si pensasse che mi favoriva. Non scrisse nulla sul rapporto, e per un bel po’ non ci parlammo più. Ma mi sbagliavo io: Collina è stato il più grande arbitro».
Sentite questa: «Sempre all’Inter un giorno siamo tutti a pranzo. Dopo un quarto d’ora mancava ancora Taribo West. Mando qualcuno a cercarlo e questi torna dicendomi che era nella sua stanza a pregare. Dopo un po’ West si unisce a noi e io gli faccio presente che può pregare quanto vuole, ma gli appuntamenti vanno rispettati. Lui mi fa: “Stavo parlando con Dio, che mi ha detto che dovrei giocare di più”. “Strano - gli rispondo io -, a me Dio non ha detto niente”».


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