I “venticinque lettori” ricordano i due secoli dei Promessi Sposi

 24/4/1821 • Oggi il 200° anniversario dell’inizio della prima stesura di “Fermo e Lucia” di Manzoni

Federico Pani

Duecento anni fa, esattamente il 24 aprile 1821, Alessandro Manzoni cominciò la stesura del “Fermo e Lucia”, il romanzo che sarebbe diventato “I Promessi Sposi”. Ne abbiamo parlato con uno dei maggiori specialisti di Manzoni, Giuseppe Polimeni, docente di Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Milano, allievo di Angelo Stella, presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani.

Professore, il 2021 è un anno dantesco, ma anche manzoniano?
«La ricorrenza del centenario dantesco non ha impedito ai “venticinque lettori” di ricordare che nel 2021 ricorrono i duecento anni dall’inizio della stesura dei “Promessi sposi”. Il 1821 è un anno fondamentale, di eventi politici e di fatti che toccano il mondo culturale (la morte di Napoleone; i moti piemontesi del marzo; la morte del grande poeta Carlo Porta). Per Manzoni è l’anno del “Cinque maggio” e dell’ode “Marzo 1821”; ma soprattutto è l’anno in cui lo scrittore mette mano alla stesura del “Fermo e Lucia”, abbandonando – e non è un caso – l’idea di una tragedia dedicata a Spartaco, figura, carica di portata simbolica, dello schiavo che si rivolta. Dalla storia romana alla storia del Seicento, da Spartaco a Lorenzo Tramaglino, che, nella “prima minuta”, si chiama Fermo Spolino, quasi “il primo uomo della nostra storia”, colui che attraversa le vicende del suo tempo come osservatore e per un momento, suo malgrado, come protagonista (il pensiero va ai discorsi che tiene durante il tumulto di San Martino e, poco dopo, nell’Osteria della luna piena). Renzo sarà protagonista soprattutto di una maturazione personale, la presa di coscienza che lo porterà a comprendere alcune verità, osservandole dal punto di vista, unico (fin ad allora) per la nostra letteratura, dell’uomo del popolo che dalle esperienze desume un nuovo modo di guardare i fatti e soprattutto di viverli; verrebbe da dire, semplificando un po’, che Renzo è uno Spartaco che matura un’evoluzione interiore e un percorso di ingresso nella società; questa storia non è una rivolta fallita, ma può e deve diventare il percorso di tutto il “popolo” in un’integrazione effettiva».

Può accennare alla sfida che dovette affrontare Manzoni nella scrittura (e nella riscrittura) dei “Promessi sposi” dal punto di vista linguistico?
«Proprio la stesura del romanzo (“genere proscritto”, come lo ha definito Daniela Brogi) pone a Manzoni alcuni problemi non semplici da risolvere: il primo tra questi è la lingua dell’opera. All’amico Claude Fauriel, intellettuale parigino con cui mantiene un dialogo epistolare per quarant’anni, Manzoni scrive che invidia i francesi: in Francia uno scrittore ha una lingua per comunicare con il pubblico a cui si rivolge, per renderlo partecipe del messaggio che vuole trasmettere. In Italia quell’autore non ha una lingua che gli permetta di raggiungere il suo pubblico e faccia sentire a quei lettori vicina e condivisa l’esperienza di maturazione dei personaggi (Renzo per primo). Tutta la ricerca di Manzoni può essere interpretata anche in questa direzione: dare ai lettori una lingua per comprendere quanto l’esperienza di Renzo Tramaglino sia anche loro, e, più profondamente, dal piano della letteratura a quello della vita e della società, di conseguenza, dare a Renzo una lingua per partecipare alla vita civile. Il percorso per arrivare a questa lingua è lungo, un “eterno lavoro” che impegna il Manzoni per tutta la vita, il filo che collega e sostiene tutte le sue esperienze di uomo e di scrittore. Riscrivere il romanzo, nella redazione ventisettana e poi in quella quarantana è la via necessaria che porta a una lingua che sia fedele al pensiero e a ciò che si narra, e che al contempo sia pronta per essere compresa, per comunicare questo pensiero; insomma significa arrivare a una lingua, nel senso pieno del termine. L’operazione manzoniana sull’italiano non è solo l’operazione di uno scrittore, ma incarna progressivamente la ricerca di un’intera nazione.
Se Dante è il padre di una lingua che è lingua di cultura, Manzoni nel 1821 si incammina su una strada che farà di quell’idioma una lingua a tutti gli effetti, il “mezzo” con cui un’intera società può esprimersi e prendere parte alla formulazione delle idee».

Che influenza ebbero le scelte di Manzoni sulla nostra letteratura e sulla nostra lingua?
«Parafrasando il titolo di un saggio del laico Benedetto Croce (“Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’”), dobbiamo riconoscere che non possiamo non dirci manzoniani. Non solo perché le indicazioni fornite dal Manzoni nella Relazione del 1868 a Emilio Broglio, ministro della Pubblica istruzione, sono state in fondo applicate, anche se parzialmente, nel percorso di unificazione linguistica che per gradi e con difficoltà si realizza nei decenni successivi: il fiorentino dell’uso vivo è un modello democratico perché permette a un’intera società, che si riconosce nell’uso, di acquisire una lingua, di farla propria, di servirsene per la sua maturazione. Portare l’uso di Firenze nell’Italia unificata, con i non molti “mezzi” del tempo, era però impresa ardua. Ecco che “I promessi sposi” diventano il libro di lingua, nelle scuole, ma anche nella lettura privata e popolare: recentemente si è compreso quanto il romanzo sia stato letto, anche nelle stalle, là dove la sera ci si ritrovava e si ascoltavano storie.
Sul piano letterario possiamo dire che è impossibile scrivere dopo Manzoni senza tener conto di Manzoni. Lo dimostra l’altro grande scrittore del nostro Ottocento, Giovanni Verga, che, come ha sottolineato Gabriella Alfieri, in una lettera degli anni del suo soggiorno milanese (sono gli anni in cui scrive “I Malavoglia”), all’amico Capuana fa sapere che sta leggendo un solo libro, “I promessi sposi”. Quanto di Renzo ci sia dietro alla famiglia di Aci Trezza è un aspetto che sta emergendo nella ricerca di questi anni. C’è da notare poi che il fatto che il romanzo di Manzoni fosse letto a scuola (qualche volta, per passi, mandati poi a memoria) ha fatto sì che diventasse una sorta di “impronta” per molti scrittori, anche quelli del Novecento».

Ritiene importante che i programmi scolastici continuino a prevedere l’insegnamento dei “Promessi sposi”?
«È un tema a cui è difficile rispondere in un senso o nell’altro, senza riflettere attentamente. I programmi possono proporre la lettura dei “Promessi sposi”, ma è importante, prima di tutto, che questo romanzo sia fatto amare.
Delio Tessa e Carlo Emilio Gadda, due grandi scrittori del Novecento, hanno entrambi sottolineato che la lettura scolastica obbligatoria non ha giovato ai “Promessi sposi”. Molti ragazzi non li amano sui banchi e li abbandonano. L’amore nasce tempo dopo, durante la rilettura personale.
Penso che sia importante, fondamentale anzi, il ruolo dell’insegnante, che può invitare alla lettura (non imporre un’opera), trasmettendo l’amore per un romanzo che si rivela non scontato nelle forme e nei temi. La scuola trasmette uno stereotipo, che, come tutti gli stereotipi, serve senz’altro, ma non in maniera esclusiva: “I promessi sposi” sono il “romanzo della Provvidenza”. Il percorso che sta dietro alla verità di questa affermazione è profondo, morale e religioso, sociale e civile.
Quando un preside, in una scuola della sua Sicilia, sostituì per i suoi alunni la lettura dei “Promessi sposi” con quella del “Birraio di Preston”, Andrea Camilleri scrisse che ringraziava per la stima, ma preferiva che si tornasse al Manzoni: “‘I promessi sposi’ è il nostro più grande romanzo del Novecento, ‘Il Gattopardo’ di Tomasi di Lampedusa […] è il più grande romanzo italiano dell’Ottocento”».

Quali sono i passi dei “Promessi sposi” che continuano a colpirla?
«Mi vengono in mente tanti passaggi dell’opera. E soprattutto penso a tutte le volte in cui rileggendo un episodio o una riflessione mi sono detto che la profondità del pensiero manzoniano è in ogni angolo, anche (o forse soprattutto?) in quelli meno noti. Proprio Delio Tessa definì Manzoni “il dottor Duplica”, riprendendo il nome che, proprio nel “Fermo e Lucia”, aveva Azzeccagarbugli: il romanzo sembra “l’opera di un semplicione e invece è il portato di un genio”. Ecco, ogni passo rivela una profondità da scoprire, da ri-scoprire in momenti diversi della lettura. Su un passo si può tornare a distanza di tempo, di anni, e qualcosa della nostra vita ci aiuta a leggerlo meglio, a capirlo, un po’ più in là. Fino in fondo? Difficile dire fin dove è arrivato Manzoni; ogni lettura è una scoperta.
Vorrei rivolgere un invito: rileggiamo la “Storia della Colonna infame”, l’opera con cui Manzoni chiude “I promessi sposi” nell’edizione del 1840. È un grande punto interrogativo rivolto alla storia e al pensiero, una richiesta di chiarimento fatta agli uomini e forse anche a Dio. L’interrogativo tocca il dolore dell’uomo, l’errore e la giustizia, la presenza di Dio nei fatti che viviamo. È una conclusione sconvolgente, a mio avviso, per il “romanzo della Provvidenza”, una discesa nell’inspiegabile».

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