Groppali sul caso fanghi: «I comuni si costituiscano parte civile»

 

Vanni Raineri

L’indagine sui gessi e fanghi tossici smaltiti in agricoltura non placa il suo clamore mediatico, anche se curiosamente nella nostra provincia, dove pure la distribuzione nei campi è stata particolarmente diffusa, se ne parla molto meno, e la discussione è spesso limitata ai social network.
Il caso su cui indaga la Procura di Brescia ha indotto anche parecchi esponenti politici a muoversi per cercare una soluzione che faccia sì che in futuro certi procedimenti siano più difficili da attuare. L’assessore regionale all’Agricoltura Fabio Rolfi ad esempio chiede una legge nazionale che serva anche per rendere più efficace l’azione di controllo. Il Pd e il Movimento 5 Stelle chiedono che sia la maggioranza in Regione ad attivarsi. Immediata la risposta: la competenza diretta è della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Ambiente, per anni occupati proprio dai 5 Stelle. Rimpalli di responsabilità a parte, è evidente che qualcosa si debba fare, per non lasciare che gli unici a potersi muovere siano i magistrati, quando ormai la frittata è fatta.
Della triste vicenda parliamo con il professor Riccardo Groppali, noto biologo, ricercatore, scrittore e docente cremonese, fautore di tanti recenti progetti di piantumazione nella nostra provincia e sempre attento alla cura del territorio.
Professore, pur rimarcando che nessun indagato è colpevole fino alla sentenza definitiva, è anche vero che dall’inchiesta emergono situazioni allarmanti, e in particolare una carenza di controlli che lascia sconcertati.
«Sicuramente è così. Capita nel caso di smaltimenti di vedere botti che infilano liquami nel sottosuolo, magari da parte di persone con mascherina, e di sentire anche una puzza nauseabonda, ma i controlli sono molto rari. D’altra parte non è questione semplice: si potrebbero fare alla fonte, ma il problema è che non sai con quale concentrazione sarà poi irrorata la sostanza al suo arrivo nella campagna».
Sta di fatto che non possiamo affidare il controllo ai sindaci, che già di problemi ne hanno, e che in caso chiedessero una verifica sarebbero costretti a far sborsare alle casse del Comune cifre non indifferenti.
«È così. Ma non è pensabile inseguire un camion o un trattore: la verifica va fatta comunque alla fonte. La soluzione potrebbe essere che sia chi mette in vendita un prodotto a dover dimostrare che è salubre, prevedendo la possibilità di effettuare controlli presso la ditta».
Per la verità quelle sostanze non le mettono nemmeno in vendita: pare le regalino.
«Peggio ancora, perché se le regalano deve scattare il campanello d’allarme, e quindi il controllo obbligatorio da parte dell’ente incaricato. Ci sono strutture dello Stato delegate».
Tra le strutture dello Stato c’è anche Aipo. Poi leggi che il direttore è tra gli indagati…
«Credo che la fiducia si debba dare alle cose serie, come recitava quel vecchio spot: bisogna meritarsela. Che ci siano funzionari che approfittano del loro ruolo mi pare sia cosa comune, non solo in questo settore».
Tristemente vero. Tanto che una certa dose di fatalismo è giustificata. Quel che indigna è scoprire che due degli indagati sono recidivi, già condannati dal Tribunale di Milano per analogo reato. Non trova sia sconcertante?
«D’altro canto noi ammettiamo la buona fede. Se qualcuno compie errori nella vita non può essere marchiato a fuoco; certo che, chi controlla, a questi soggetti dovrebbe prestare particolare attenzione, perché chi compie malefatte è più probabile che le ripeta».
Certo, ma qui parliamo dello stesso reato. È un po’ come assumere in una scuola una persona condannata per pedofilia.
«Già accaduto anche questo, proprio qui a Cremona. Lo avevano messo a controllare i ragazzini all’oratorio, e non poteva finire diversamente…».
Torniamo ai nostri campi. Qualche decennio fa erano parcellizzati, proprietà di agricoltori che vivevano nella cascina attigua e direttamente interessati allo stato del terreno, dei cui prodotti si nutrivano loro per primi. Oggi l’occhio si perde sulla grandezza di terreni appartenenti spesso a imprenditori che non hanno nemmeno nel settore primario l’interesse principale. Quanto incide questa trasformazione?
«Ha certamente dato un contributo negativo, ma attenzione: che l’agricoltore che mangia il prodotto della propria terra sia più attento non è sempre vero. Pensiamo solo ai potentissimi insetticidi che venivano usati in passato e alle conseguenze pagate in primis da loro. Poi l’agricoltore è un imprenditore economico: se è piccolo fa cose in piccolo, se è un grosso industriale le fa in grande. Fa comunque conti economici, e se il contoterzista gli costa meno fa i suoi conti. Diciamo quindi che è vero che il legame con la terra si è fatto meno stretto, ma non è un fattore decisivo per migliorare la qualità. Basta vedere la coltivazione di melone, che resta familiare e si fa in quei tunnel che vediamo dalla strada, e i casi di cancro che si registrano per l’impossibilità dei lavoratori di respirare all’aria aperta. Ecco che il piccolo non è sempre più prudente, solo che il grande fa imprudenze più grandi, e può permettersi di fare arrivare grandi quantità di fanghi».
I resoconti di questi giorni considerano i proprietari convinti ad ospitare i fanghi sui loro terreni come ingenui e parte lesa. È possibile credere alla buona fede quando spesso hanno accettato proposte di fertilizzanti distribuiti senza alcuna spesa e per di più con aratura finale gratuita?
«Ovvio che a fronte di proposte di questo tipo qualche sospetto deve venire. Ecco quindi che sono ingenui fino a un certo punto. Non si pongono il problema di quanto costi il fertilizzante? Oppure lo fanno ma comunque accettano sostanze che magari gli dicono siano state testate: direi che non sono vittime completamente innocenti».
Sarebbe auspicabile una campagna informativa più massiccia sul tema fatta agli agricoltori anche senza passare attraverso le diverse associazioni?
«Come si potrebbe fare, indirizzandola a ciascuno di loro? E in che modo? Solitamente queste informazioni possono passare attraverso le associazioni, ma anche qui assistiamo a una sfasatura».
Sembra che la segnalazione da cui è partita l’indagine sia stata fatta dagli studenti di una scuola e dalla loro insegnante, dopo aver sentito odori nauseabondi. Ciò sembra significare l’importanza della presenza umana, mentre spesso i campi sono raggiungibili da strade chiuse con divieti di accesso perché private: pensiamo soprattutto alle golene.
«Vero: questo è un altro problema con cui fare i conti, e che aumenta le difficoltà di controllo da parte del soggetto pubblico, il quale è pur vero che spesso riceve segnalazioni inutili, ma però qualche caso è in grado di scoperchiarlo, come dimostra questa vicenda».
Un’altra presenza che potrebbe servire è quella delle guardie ecologiche volontarie, le Gev. Il gruppo di Casalmaggiore però è stato sciolto.
«La loro presenza potrebbe servire, ma hanno poteri molto limitati. Io ad esempio seguo le Gev del Parco Adda Sud: possono segnalare presenze di odori o situazioni strane, ma sono le stesse segnalazioni che può fare il cittadino comune. Va detto però che sono autorizzati ad andare anche in strade private e possono effettuare un controllo più capillare, e sono pubblici funzionari, che hanno superato un esame e hanno un loro tesserino».
Alcuni comuni bresciani hanno chiesto alla Procura di entrare in possesso dell’elenco dei terreni su cui sono stati smaltiti i fanghi. Un esame di questi terreni sarebbe auspicabile.
«Mi sembra una proposta intelligente quella di conoscere queste aree per prelevare campioni di terreno e farli verificare, almeno per comunicare ai cittadini un’informazione corretta. D’altro canto il sindaco è responsabile della salute dei suoi cittadini, ed è giusto che sappia lui per primo come stanno le cose, per poter intervenire qualora avesse dei dubbi».
Che ne pensa della proposta di dedicare obbligatoriamente a pioppicoltura quei terreni su cui ci sono stati sversamenti  inquinanti? Almeno per un ciclo decennale non rischieremmo di mangiare prodotti che vi crescono.
«Potrebbe essere la soluzione ideale, anche se dobbiamo tenere presente che ciò che è stato sversato in un terreno, prima o poi finisce nella falda. Ma è vero: quantomeno eviti che le sostanze più tossiche finiscano direttamente in tavola».
Alcuni comuni, sempre del Bresciano, hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo, mentre anche in questo caso nella nostra provincia nulla si sta muovendo.
«I comuni bresciani forse sanno che nel loro territorio sono stati utilizzati questi fanghi. I nostri comuni lo sanno?»
È vero che da noi non si sta facendo ampia informazione su questa indagine, ma da quanto leggiamo sui social sembra che i sindaci, che spesso intervengono sul tema anche perché pressati dai cittadini, ne siano informati.
«Bene. Allora dovrebbe essere loro dovere costituirsi parte civile».
Anche perché dovremmo evitare che si considerino pratiche di questo tipo come danni collaterali inevitabili. Importante, anche come segnale a tutti gli operatori del settore, sarebbe un messaggio di rottura significativo con una presa di posizione critica da parte di tutti.
«Certo, altrimenti passerebbe l’idea che nei campi puoi fare tutto quel che vuoi che nessuno ti tocca».


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