INTERNET - L’esperto Claudio Gagliardini ammonisce sui rischi dello “sharenting”
Benedetta Fornasari
Si definisce sharenting (neologismo derivante dall’unione dei termini “sharing” - condivisione - e “parenting” - genitorialità) la pratica di condivisione di foto e video di figli minorenni da parte dei genitori sui social network. Un fenomeno del tutto normale per gli adulti che scelgono di raccontarsi a suon di post Facebook e Instagram stories, rendendo così partecipi gli amici e i followers della vita dei bambini e dei ragazzi.
Cosa c’è di male nel rendere pubbliche immagini e filmati di neonati e di minori, immortalati e ripresi in qualsiasi momento e attività quotidiana? Ne abbiamo parlato con Claudio Gagliardini, esperto in comunicazione e marketing, social media e digital PR, co-fondatore della agenzia digitale seidigitale.com e di allstream.it.
Cosa succede una volta che vengono postati sui social foto e video di minorenni?
«Tutto e niente. O meglio: in linea generale e se siamo fortunati niente, ma potenzialmente qualsiasi cosa. Quando postiamo una nostra foto o video, ad esempio, lo facciamo per celebrare qualcosa, per condividere un ricordo, per ottenere interazioni e considerazione o semplicemente per vanità, lo facciamo in modo superficiale e spesso del tutto inconsapevole. Nel farlo ci illudiamo che a vederla e ad interagire ci siano i nostri contatti sui social: gente che conosciamo o al massimo qualche loro amico, conoscente o collega, ma di fatto non è così. Ogni volta che mettiamo un’immagine o un video su un dispositivo connesso in Rete, infatti, prima ancora di condividere sui social, siamo già sulla “soglia di casa” con la porta aperta: può darsi che non passi nessuno o che chi dovesse passare abbia altro per la testa, ma non possiamo escludere che invece qualcuno si interessi a noi e a ciò che mettiamo a disposizione. Se poi quella soglia la varchiamo e andiamo sui social, qualunque siano i livelli di privacy con i quali condividiamo, siamo di fatto “nel mondo” (World Wide Web) e anche lì valgono le stesse regole, ma su una scala enormemente più grande. Può darsi che qualcuno usi i nostri materiali per i suoi scopi, scaricandoli sui suoi dispositivi, ricondividendoli, spacciandoli per propri o addirittura vendendoli a terzi, anche questi animati da infiniti possibili motivi.
C’è da tenere inoltre presente che il Web che ogni giorno usiamo è soltanto la punta dell’iceberg: al di sotto del mondo “censito” dai motori di ricerca più usati, infatti, si nascondono il Deep Web, i cui contenuti non sono indicizzati dai motori e il Dark Web, dove si svolgono attività illecite di ogni genere e dove solo gli utenti più avanzati riescono ad accedere e a muoversi».
Quali sono i rischi correlati allo sharenting?
«I rischi sono molti, ma ce n’è uno che è ancora più grave di quelli più dibattuti: l’ignoto. La fantasia dell’uomo è infatti illimitata e i rischi peggiori sono sempre quelli che non conosciamo, spesso soltanto perché non si sono ancora manifestati. Tra quelli noti, tuttavia, quelli statisticamente più insidiosi non riguardano adescamento e pedopornografia, che pure esistono e da soli dovrebbero bastare a contenere la smania degli adulti di condividere, ma la generazione di un’impronta digitale (digital footprint) che rappresenterà un’eredità ingombrante per i ragazzi nel corso di tutta la vita. Un patrimonio di contenuti difficili da controllare che in futuro potrà metterli in imbarazzo, minacciare le loro opportunità o addirittura danneggiarli, in funzione del loro percorso di vita. Tutti i possibili rischi, primi tra tutti quelli di carattere etico, derivano poi da un solo ed unico problema a monte: chi ci autorizza a diffondere immagini dei nostri figli, parenti o amici minori? Come ci giustificheremo di fronte a possibili utilizzi illeciti delle loro immagini?».
Come limitare tali pericoli?
«La stella polare è certamente il buon senso, che spesso si schianta contro il muro del cattivo gusto e della stupidità. Esistono tuttavia precisi riferimenti di legge a tutela dei minori e della loro presenza online, diretta o indiretta. Sono molte le leggi e i regolamenti che negli anni hanno inserito nuovi paletti, finché nel 2018 l’articolo 8 del Gdpr (il regolamento europeo su privacy e dati) fissò una “età del consenso digitale” che può variare nei diversi Paesi da 16 a 13 anni e specifica che tale consenso “è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale”.
Al di là delle leggi e delle loro conseguenze, tuttavia, è necessario sviluppare una forte consapevolezza rispetto al Web e ai suoi strumenti e dinamiche, oltre a una sensibilità che ci consenta di limitare quanto più possibile i rischi. Azzerarli è infatti ormai pressoché impossibile.
Limitare i pericoli è tuttavia possibile e soggetto ad un’unica regola: condividere il meno possibile, con pochi e fidati contatti e tenendo traccia di quanto pubblicato per poter revocare l’accesso a chi, nel frattempo, non fosse più nel nostro “cerchio della fiducia” o addirittura rimuovere del tutto i contenuti condivisi. A monte le regole auree dell’uso della Rete: password sicure e cambiate spesso, autenticazione a due fattori, controllo frequente e, soprattutto, svuotamento e rimozione degli account non più utilizzati».
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