Referendum, istituto da cambiare

POLITICA • Troppo poche oggi 500mila firme, soprattutto con la raccolta online. E il quorum è un miraggio


Vanni Raineri
Il rischio vero è quello di fare moltissimi referendum abrogativi quasi nessuno dei quali ha possibilità di essere approvato, il tutto per un costo economico notevole e un’applicazione della democrazia molto discutibile.

Ne parliamo a seguito della possibilità concessa di raccogliere le 500mila firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo anche online, il che, stando anche ai risultati recenti, favorisce nettamente il raggiungimento dell’obiettivo. Nella prossima primavera infatti saremo chiamati a votare diversi referendum, i più noti dei quali riguardano la legalizzazione della cannabis e la depenalizzazione dell’eutanasia. Ma a questi si sono aggiunti ben 6 quesiti sulla giustizia e 3 sull’abolizione della caccia, e altri si sono messi in campo in fretta e furia. La facilità con cui è possibile raccogliere 500mila adesioni con un semplice clic, invece che recarsi negli uffici comunali o negli appositi gazebo, fa gola a molti cittadini e politici che vorrebbero che alcune leggi fossero cambiate.

Il rischio, come scritto sopra, è che il tutto non si traduca tanto in un potenziamento della partecipazione democratica, sancita dall’art. 75 della Costituzione, quanto in un depotenziamento: se già i cittadini disertano le urne per le elezioni politiche e amministrative (gli ultimi dati sono emblematici) come si può pensare che oltre il 50% degli aventi diritto risponderà agli appelli referendari? Ricordiamo infatti che senza il raggiungimento di quel quorum, il referendum è inutile.

Ci troviamo dunque davanti a un groviglio favorito dai seguenti fattori: il minimo di 500mila firmatari appare basso rispetto ai tempi della Costituzione (oggi siamo 15 milioni di italiani in più, ma se vediamo il numero di elettori siamo passati dai 29 milioni del 1948 agli oltre 50 milioni di oggi); la raccolta firme online ha dimostrato con i recenti casi che è possibile ottenere il risultato in pochi giorni; l’abitudine di essere chiamati a votare potrebbe generare rigetto, con difficoltà a raggiungere il quorum; in ogni caso la partecipazione al voto non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella in cui fu fatta la legge. A tal proposito si pensi che alle elezioni del 2 giugno 1946, nonostante fossero le prime che prevedevano il voto alle donne, partecipò il 90% degli aventi diritto. Alle recenti amministrative spesso non si è raggiunto il 50%, come si pensa quindi di centrare il quorum con quesiti referendari?

Sembra chiaro dunque che la legge sia da cambiare, ma come? Innanzitutto si dovrebbe valutare il numero di firme: pur lasciando ferma la richiesta fatta da almeno 5 consigli regionali, si potrebbe aumentare di molto il numero di firme da raccogliere, sia pure online. Ma perché non valutare anche il voto referendario online? Se è concesso firmare online, perché non votare con la stessa modalità? Probabilmente sarebbe più agevole per un cittadino votare pur essendo fisicamente non vicino al proprio collegio, come avviene oggi per tante circostanze (come l’elezione dei vari Ordini professionali). Ovvio che vadano prima garantite sicurezza, segretezza e libertà del voto. Il voto online eviterebbe poi l’effetto traino: alle urne ci si reca per quesiti ritenuti importanti, e gli altri si garantiscono così una affluenza che da soli non potrebbero avere.

Altra via è quella di abbassare il quorum: il 50% oggi appare quasi irraggiungibile. Non solo: la difficoltà di raggiungerlo ha portato sempre più i favorevoli al no a boicottare il voto, aggiungendo il no al non voto, e sabotando così di fatto il referendum. Possiamo dire che la disaffezione crescente verso la politica ha spinto all’uso dell’astensionismo strategico. D’altra parte i numeri parlano chiaro: a partire dal 2000 sino ad oggi, solo in un caso i favorevoli hanno superato il 50%, e si tratta del referendum del giugno 2011 (erano 4 i quesiti, 2 sulle tariffe idriche, poi energia nucleare e legittimo impedimento: 51,4% di favorevoli per un’affluenza complessiva inferiore al 55%). In tutte le altre occasioni i favorevoli si sono attestati attorno al 20%, con la punta del 27% al referendum del 2016 (31% di affluenza: si trattava delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare).

Un buon successo ottennero gli ultimi referendum, quelli sull’autonomia di Lombardia (38,26% di affluenza) e Veneto (57,2%), ma non si trattava di referendum abrogativi bensì solo consultivi, senza conseguenze immediate: e in effetti sono stati appelli dalle scarse conseguenze pratiche, come però accaduto anche a referendum “ufficiali”.

Il 20 ottobre, tra soli 4 giorni, scadono i termini per la raccolta firme. Sono in campo anche coloro che vogliono abolire il green pass. Hanno pochi giorni, ma tante chance di farcela

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