Caritas cremonese, le tante facce della carità

Chi è don Pierluigi Codazzi


nato a Cremona, sempre in cittàcon una breve esperienza a... Persico,
Don Pierluigi Codazzi è nato il 9 marzo 1956 a Cremona. Ordinato presbitero della parrocchia cittadina della Beata Vergine di Caravaggio il 21 giugno 1980, ha iniziato il ministero sacerdotale come vicario di Persico, per rientrare nel 1984 nella parrocchia di origine. Nel 1997 è stato nominato (fino al riordino della Curia del 2016) responsabile del Servizio per il disagio dell’età evolutiva, nel 2004 è parroco della parrocchia dell’Immacolata Concezione (Maristella) e nel 2016 è stato nominato vicario zonale della Zona Pastorale della città. Il 22 marzo 2019 il Vescovo Antonio Napolioni lo nomina Incaricato Diocesano per la pastorale caritativa e direttore della Caritas Cremonese (Vicedirettore Cristiano Beltrami, collaboratore Cesare Galantini), carica che viene ricoperta ufficialmente il 20 ottobre 2019, e nel contempo termina il mandato di presidente della cooperativa sociale Nazareth.

di Vanni Raineri
Per la Caritas Cremonese questo 2022 è un anno significativo: coincide col suo 50° compleanno, che si accompagna alle celebrazioni di un Santo che con la carità aveva parecchia confidenza: San Facio, in memoria del quale martedì scorso è stata celebrata dal Vescovo Antonio Napolioni una Messa solenne in occasione del 750° anniversario della morte. Come ricordato sullo scorso numero, San Facio è di origine veronese e visse nella Cremona del XIII secolo, dove promosse la Confraternita dello Spirito Santo, che si occupava della raccolta delle elemosine da recapitare a quei poveri che si vergognavano di mendicare. In fondo, a ben guardare, vi si trovano due costanti della “cremonesità”: l’attenzione a chi resta indietro e una certa ritrosia a manifestare, per una sorta di dignità, la propria condizione di indigenza. Le celebrazioni del 50° della Caritas sono iniziate nel segno di San Facio e si chiuderanno il 13 novembre 2022, con le celebrazioni del patrono di Cremona, Sant’Omobono.

Partiamo da qui nel nostro colloquio con don Pierluigi Codazzi. A Cremona sono venerati due personaggi storici noti per la loro grande opera di carità, tanto che sono noti come “il santo della carità” e “il padre dei poveri”. Un filo sottile che parte dal Medioevo e arriva ad oggi.

«Non c’è solo questa caratteristica, li unisce il fatto di essere entrambi laici, e mi piace sottolinearlo. In certi secoli della storia della Chiesa non è una circostanza banale: la loro beatificazione fu richiesta grazie ad una forte spinta popolare, il che significa il riconoscimento di una città. Evidentemente seppero smuovere la comunità intera per condividere con essa il loro desiderio di attenzione nei confronti dei più fragili e poveri. Sottolineo questo perché è un aspetto fondante della Caritas: non abbiamo bisogno di supereroi che eccellono nella loro individualità, ma di figure di riferimento che generano e trasmettono questa attenzione ai vari settori del vivere. Oltre a questa caratteristica, molto bella e significativa, c’è anche la separazione tra la cosiddetta spiritualità (a volte scambiata per spiritualismo) e la quotidiana capacità di immergersi nei fatti della vita delle persone. Ma la spiritualità è una sola, quella incarnata che osserviamo. Mi piace il fatto che siano laici e vivano nel contempo questa profonda esperienza di fede e di preghiera; questa loro spiritualità sia tutt’uno con quello che la vita ogni giorno ci chiama a riconoscere. Questo è uno stile che dopo 750 anni o dopo 50 di Caritas siamo chiamati anche oggi ad avere, essendo di grande attualità».

È stato lo stesso Vescovo a dire nel ricordo di San Facio: “Il Signore sa trasformare da deserto a sorgente nei tempi difficili della storia, anche nei tempi della pandemia”.

«Direi che la fede deve aiutare, in questo senso, anche nella pandemia. È vero che il messaggio diffuso e comprensibile è quello di chiudersi per evitare il contagio, ma pur nel rispetto delle normative, anche nei momenti più complicati il contatto può essere indispensabile, in particolare per chi soffre nella fragilità e nella fatica. Non è un caso che oggi leggiamo che la concentrazione della ricchezza è aumentata, mentre i fragili scalano verso il basso. Ci sono persone che vivevano in una discreta stabilità che garantiva una certa dose di autonomia, penso a chi aveva contratti di lavoro saltuari o mutui che lo facevano stare sul filo del rasoio. C’è chi insomma se la cavava pur con sacrifici, ma quando arriva una crisi che tocca equilibri così delicati c’è il rischio che una quota di cittadini di fatto entri in una situazione di povertà o di fatica che prima sopportava con qualche sostegno, ma appunto con una dose discreta di autonomia. Pensiamo anche ai costi dell’energia che peggiora situazioni già critiche. Inoltre, dall’altro lato, dobbiamo fare i conti anche con chi era generoso e oggi fatica a garantire la stessa generosità, e questo purtroppo è un dato di fatto che registriamo in diverse occasioni».

Lei è stato nominato direttore della Caritas nel marzo 2019, ed ha assunto l’incarico il 20 ottobre dello stesso anno, succedendo a don Antonio Pezzetti che ha diretto la Caritas per ben 25 anni. Poco più di due anni che sono coincisi con una pandemia mondiale. Facile immaginare che questo abbia scombussolato i suoi piani.

«Certamente li ha resi più complessi nella loro realizzazione, ma spero non siano cambiati così radicalmente. Credo che ci sia un difetto di conoscenza su quello che deve essere la Caritas. Questa nell’immaginario collettivo è spesso identificata nella Casa dell’Accoglienza, e questa a sua volta con i migranti, ma ciò è solo una parte del nostro impegno. Il primo compito, per statuto, riguarda l’accompagnamento della comunità alla carità, il che comporta lavorare sul territorio incentivando i centri di ascolto, per una maggiore consapevolezza delle comunità cristiane e una novità di risposte rispetto ai bisogni. Ad esempio è riemerso il bisogno alimentare, ma io posso limitarmi a consegnare un pacco alimentare a una famiglia bisognosa oppure posso incontrarla personalizzando il pacco, ed è un approccio differente, perché in questo caso ne conosco i bisogni. Così come posso accompagnare da volontario la persona a fare la spesa al supermercato invece di dare il buono per fare la spesa. Esiste un percorso che prevede la conoscenza e la relazione con le persone, anzi, oggi parlare di esperienze di carità non passando attraverso la relazione con le persone è scorretto. Aiutare le comunità a intraprendere percorsi relazionali con persone in difficoltà significa impostare un lavoro a lungo termine rispetto alla componente prettamente assistenziale».

Prima della pandemia non era insolito trovare sui media notizie di cronaca che coinvolgevano la Casa dell’Accoglienza. L’ultimo caso, a pochi mesi dalla sua nomina, riguardava un arresto per spaccio. Lei allora spiegò che impegno all’accoglienza non può essere separato né separabile dall’attenzione alla giustizia e alla legalità, sottolineando lo sforzo in corso per garantire sicurezza all’interno della struttura grazie anche al maggiore controllo degli ingressi, in piena collaborazione con le istituzioni. Da allora in effetti il clamore è cessato, ma giustamente lei ha fatto notare che la percezione dei cittadini è una cosa, la realtà che affronta la Caritas è molto diversificata.

«Io vorrei rispondere al mandato che mi è stato affidato e che ha queste caratteristiche, prendendo atto di dove si è per costruire. Non mi interessa essere identificato come supereroe buono rispetto al cattivo. Un altro aspetto che pochi conoscono riguarda i cosiddetti servizi-segno, ambiti in cui la Caritas Cremonese si sperimenta in modo diretto. Gli esempi sono tanti: a Cremona c’è una comunità per assistere ragazze adolescenti che è Comunità Lidia, poi una comunità residenziale per minori maschile a Cortetano, la Fattoria della Carità, quindi la Comunità di San Francesco che accoglie donne in difficoltà, un’altra, la Casa di Nostra Signora, per l’inclusione di donne adulte fragili, oggetto spesso di abbandono e violenza, poi Casa Speranza a Borgo Loreto per i malati di Aids, e ancora La Isla de Burro che fa pet therapy a Zanengo contando su 18 asini e cavalli che unisce il tema dell’ambiente e della natura alla relazione con chi è fragile. Oltre a tutto ciò, c’è anche la Casa dell’Accoglienza (oltre alla sede di Cremona anche quella di Casalmaggiore), e tutto in capo alla mia persona. Intendo dire che la narrazione spesso non fa emergere la complessità dei servizi-segno, poiché fa più notizia parlare di una singola realtà rispetto all’educazione pastorale della Caritas».

Sa com’è, fa più rumore l’albero che cade piuttosto che la foresta che cresce.

«Non solo, ci sono gli aiuti alimentari al territorio, con l’istituzione della Borsa di Sant’Omobono per fronteggiare la pandemia. Le faccio l’esempio di una persona di 40 anni che fatica a pagare le bollette, ma ha tempo e voglia di lavorare. Ecco che posso creare una borsa lavoro in accordo con le aziende per reinserire questa persona nel mercato del lavoro, valorizzando il tanto che ha ancora da dare interrompendo l’aspetto meramente assistenziale. Un altro esempio: per la persona che ha un lavoro fuori Cremona posso incentivare l’acquisto di una bicicletta elettrica. Le modalità partono dalla relazione e dalla conoscenza degli strumenti che servono a dare la migliore risposta. L’antico detto che è meglio insegnare a pescare che regalare un pesce non sempre basta, ma non posso limitarmi a dire “ecco la casa, ecco il lavoro, vai”. Serve accompagnamento, servono attenzioni che sono educative».

Anche la questione casa è un’emergenza.

«Esistono a Cremona, anche se sono poco visibili in città, situazioni di forte disagio che aumentano, di marginalità soprattutto legata al tema dell’abitare, e oltre a ciò rileviamo un aumento della componente psichica del disagio. Mi riferisco a situazioni non più solo educative o di bisogno materiale, ma che necessitano interventi socio-sanitari che dovranno sempre più integrarsi, in rapporto tra le diverse istituzioni. Pensiamo all’alcol, al gioco d’azzardo, a forme che toccano povertà estreme: il tema della grande marginalità va trattato con estrema delicatezza».

E il Covid non ha certo migliorato la situazione.

«Se la pandemia ci sta insegnando qualcosa, che forse avevamo già imparato 700-800 anni fa, è che nessuna persona né istituzione può affrontare da solo questo tema, che è della comunità intera. Serve la capacità delle persone di non affrontare da sole le situazioni, e da parte delle istituzioni e associazioni quella di saper condividere i tratti di strada: è una prospettiva da percorrere in modo molto più deciso rispetto al passato. Un anziano che vive nella solitudine può avere anche problemi economici, o fisici: ci sono tanti aspetti che si intersecano. Così come il bisogno di un’abitazione può fare emergere un bisogno sanitario o viceversa».

Sullo sfondo don Pier Codazzi vede un nuovo pericolo.

«Il tema della digitalizzazione rischia di escludere fasce di popolazione. In questo senso anche il volontariato si dovrà ripensare: pensiamo al volontariato del buon vicinato, ovvero la persona che magari aiuta i vicini anziani a risolvere un problema per lui semplice ma per loro inestricabile. Sta qui la capacità di relazione di una comunità».







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