La Shoah non ha risparmiato lo sport, anche a Cremona


Vittorio Staccione

La testimonianza:  

PER MOLTO TEMPO IL SILENZIO HA AVVOLTO
LE TANTE STORIE DI SPORTIVI PERSEGUITATI. IL CONTRIBUTO DI TORRESANI PER POTER RICORDARE

PIERLUIGI TORRESANI*
Per troppo tempo nel nostro Paese, come in quasi tutta Europa, si è tentato di dissociare tutto ciò che costituiva la “memoria”, dal fenomeno “Sport”: Come se tutto il movimento sportivo si fosse preso una sorta di “vacanza forzata” da quella pagina più insensata e mostruosa scritta dall’uomo nel XX secolo. Oggi, a seguito del moltiplicarsi di iniziative, pensiamo sia venuto il momento di affrontare criticamente il nodo del rapporto fra “Sport e Shoah”, di aprire quegli armadi della vergogna che pure lo sport per troppo tempo ha volutamente dimenticato o tenuto colpevolmente chiusi. Per non guardarci dentro e fare conti con un passato che per molti, potrebbe risultare ancora scomodo.

Ed è per questo che, partendo e incentivati dal grande lavoro di ricerca svolto dallo storico dello sport Sergio Giuntini, che si intitola appunto “Sport e Shoah” (Sedizioni 2014), con questo modesto contributo si tenta di offrire spunti per riflessioni, sperando in positive ricadute per le giovani generazioni, presentando la storia della Shoah, da un versante decisamente interessante, ma ancora poco frequentato.

Per questo, al posto di un quadro generale, si vuole proporre all’attenzione casi esemplari di donne e uomini che, con coraggio, hanno pagato spesso con la vita la loro tenace coerenza, accettando un destino che la cosiddetta “soluzione finale” aveva abbondantemente indicato. Una storia di vite umane, legate dal filo rosso della pratica sportiva. La popolarità e le forme di divismo, di cui erano già allora oggetto i campioni , non costituirono alcuna forma di vantaggio, una sorta di salvacondotto pubblico. Si è calcolato in maniera approssimativa, ma vicino alla realtà, che almeno 60.000 atleti di cui 220 ad alto e altissimo livello, furono deportati nei campi di concentramento, disseminati in varie parti d’Europa, dove la maggior parte vi trovò la morte.

Nel 1928, ai Giochi Olimpici di Amsterdam, l’Italia conquistò la prima medaglia olimpica femminile: un bellissimo argento dietro alla Nazionale Olandese, della quale facevano parte diverse atlete ebree. Ebbene quella formidabile squadra fu letteralmente decimata dopo l’emanazione delle Leggi razziali. Così come lo è stata la Nazionale Cecoslovacca di Ginnastica, con ben 21 atlete mandate a morire nell’inferno di Mauthausen, nel 1943.

Emblematiche ed interessanti sono le vicende che legano due grandi allenatori ebrei-magiari: Egri Erbstein e Arpad Weisz, che operarono in Italia fino all’emanazione delle Leggi razziali del 1938. Due storie di calcio e bieca discriminazione che, per forza di cose, si dipanarono lungo linee parallele, per poi separarsi e, in tempi diversi, culminare in un epilogo ugualmente tragico. Erbstein, nato a Nagyvarad il 13 maggio 1898, era stato un ottimo centrocampista nelle fila del Bak e dell’Atletikai Klub di Budapest. Diventato allenatore ecco l’incontro con l’Italia e la sua prima squadra, il Bari. Poi Nocerina e Cagliari fino ad approdare alla Lucchese dal 1932 al 1938. Maestro di tecnica e di tattica, aveva intuito l’enorme importanza della preparazione fisica: “Coraggio più sudore con più calma, ecco la ricetta vincente!”, ripeteva in modo a volte ossessivo ai suoi giocatori. A Lucca lo colpirono le Leggi razziali che lo costrinsero ad emigrare in quel di Torino, città ritenuta più sicura. Cosa che però non risultò vera; da qui le peregrinazioni verso l’Olanda e la Svizzera, che cercò di raggiungere varcando la frontiera tedesca. Con la famiglia venne fermato a Kleve, non distante da Dusseldorf. Oramai braccato, riuscì miracolosamente a trovare rifugio nella sua Ungheria ed evitare la deportazione fino al 1944, quando la Wermacht s’insediò nel territorio magiaro: Erbstein fu tradotto in un campo di lavoro, da dove riuscì a fuggire e a raggiungere Budapest. Così evitò il lager ed una fine quasi sicura. Quella fine prematura che rinviò l’incontro con il destino al 4 maggio 1949, con l’impatto dell’aereo, che trasportava il grande Torino, con la basilica di Superga, al ritorno da una amichevole in Portogallo.

L’altro grande allenatore ebreo-ungherese che ebbe una fama notevole nel nostro paese per aver conquistato ben tre scudetti, uno alla guida dell’Ambrosiana Inter e due a quella del Bologna, è Arpad Weisz. Nato a Solt il 16 aprile 1896, è stato nazionale olimpico ungherese nel 1924 e successivamente apprezzato giocatore di Padova e Inter. Come allenatore fu alla guida di Alessandria, Novara ,Bari, Inter e Bologna. Come Erbstein, quando sopravvennero i “pogrom razzisti” di Mussolini, cercò riparo in Olanda ottenendo un ingaggio presso il Dordecht, ma con l’invasione nazista dei Paesi Bassi il 7 agosto 1942, la famiglia Weisz venne arrestata e deportata a Vesterbork. L’identico punto di transito da cui era inizialmente passata Anna Frank. La moglie di Arpad, Elena e i suoi due figli Roberto e Clara vennero soppressi ad Auschwitz il 5 ottobre 1942. A lui, di costituzione robusta, per qualche mese fu riservato il campo di lavoro di Kosel nell’alta Slesia. Trasferito successivamente ad Auschwitz, come la maggior parte degli internati non sopravvisse alla fame ed agli stenti. Il 31 gennaio 1944 il triplice fischio dell’orrore. Ancora oggi , tutti gli anni le squadre Allievi dell’Inter e del Bologna, con una partita amichevole ricordano quel lontano maestro di vita e di tecnica calcistica.

Ma non solo gli ebrei finirono nel mirino della barbarie nazista; altre “diversità” furono perseguitate con ferocia: rom, sinti, omosessuali, disabili.

Storia particolarmente toccante è quella di un grande talento del pugilato tedesco: Johann Trollmann. Dotato di una fisicità armoniosa, Johann mostra fin da adolescente la passione per la boxe e, percorrendo le varie tappe obbligate, arriva a diventare campione nazionale dei pesi medi. Ma c’è un problema: è un sinti, cioè uno “zingaro” e per questo viene emarginato, non permettendogli di combattere per poi escluderlo dalle Olimpiadi del 1928, subendo negli anni successivi ritorsioni e persecuzioni, fino ad essere internato nel campo di Neungamme, dove muore, massacrato di botte (trattamento solitamente riservato ai pugili ed ai lottatori) il 9 febbraio 1943. Alla sua vicenda si è fortemente interessato il Premio Nobel della Letteratura Dario Fo, che ha raccontato la vita di Trollmann in uno dei suoi ultimi lavori, un bel libro dal titolo “Razza di zingaro”.

A CREMONA A questo punto ci sembra opportuno ricordare alcune figure che riguardano da vicino Cremona ed il suo territorio. Una è quella di Vittorio Staccione, che giocò con la maglia della Cremonese nell’anno 1925/26 proveniente dal Torino, mandato nella nostra città per “farsi le ossa” e completare il servizio militare presso la Caserma Paolini, struttura compresa fra Viale Trento e Trieste e via Palestro, dove attualmente sorge il Polo Scolastico. Staccione è bravo e viene subito notato, tant’è che dopo un fugace ritorno al Torino lo vuole l’ambiziosa Fiorentina. E Firenze sarà l’apice di una carriera non priva di problemi, soprattutto a livello personale con un doppio colpo del destino: prima la scomparsa dell’amata moglie e successivamente quello della figlioletta appena nata. Come calciatore le ultime tappe sono Cosenza e Torre Annunziata e nel 1936 lascia il calcio per tornare a Torino e fare l’operaio alla Fiat. Ed è in questo periodo che intensifica l’attività di sindacalista e di militante antifascista. Per tale ragione è attentamente sorvegliato dall’Ovra, la polizia politica di allora. Durante gli scioperi del ’44, Vittorio Staccione viene arrestato il 13 marzo; dopo una breve sosta a Verona, viene deportato a Gusen, sottocampo di Mauthausen, con il numero di matricola 59160. Ed è in questa località che, a causa di una cancrena per le percosse subite dalle SS, si spegne il 16 marzo 1945. Alla memoria di Vittorio Staccione, su iniziativa del Panathlon di Cremona, nel giugno 2015 è stata posta una targa in marmo presso lo stadio Giovanni Zini, identificandolo come “simbolo dello sport, che sacrificò la vita per la pace e la fratellanza fra i popoli”.

Uno che invece, pur subendo umiliazioni e persecuzioni è sopravvissuto alla barbarie, è Egidio Armelloni, grande ginnasta nato a Soresina nel 1909 e dove, proprio a Soresina, iniziò la sua brillante carriera. Dopo una breve emigrazione a Biella, trovò lavoro a Milano e qui venne tesserato dalla società Pro Patria e allenato da Mario Corrias, responsabile tecnico della nazionale italiana. Armelloni fu uno dei maggiori ginnasti italiani degli anni ’30: famosa e inimitabile la sua uscita dalle parallele. La sua carriera è stata pesantemente condizionata dall’impegno politico di antifascista e nonostante numerosi arresti, per varie ragioni a volte molto fortunose, è sempre riuscito a sfuggire alla deportazione. Come atleta ha partecipato ai mondiali di Budapest nel 1934 e alla Olimpiadi di Berlino nel 1936 (dove si ricorda una simulazione di infortunio alla spalla, che gli “impediva” di allungare il braccio per il saluto fascista!). Dopo una pausa nei partigiani del Sap, ormai trentanovenne, fece in tempo a partecipare alle prima edizione delle Olimpiadi del dopoguerra, quella di Londra 1948, classificandosi al 5° posto nella gara a squadre. Quella di Egidio Armelloni è ancora, alla pari di tante altre, una figura poco indagata da storici e sportivi; la città di Soresina potrebbe ricordare questo concittadino, proponendo alle giovani generazioni una figura molto positiva per lealtà, coraggio e coerenza.

Per ultimo vogliamo riservare una citazione per due figure, cremonesi di adozione, il cui ricordo è ancora vivo nella nostra città. Parliamo dei fratelli Claudio e Ottorino Paulinich, entrambi nati a Fiume, il primo nel 1920, il secondo nel 1922. Cresciuti in una famiglia di calciatori di alto livello: il padre Arpad e gli zii Zeffirino, Ladislao e Stefano sono stati ottimi calciatori ed era quindi naturale che anche loro prendessero quella strada; prima nella squadra della loro città, la Fiumana, che militava in serie C, e poi in giro per l’Italia. Il 15 novembre 1944 Claudio e Ottorino vengono fermati da una pattuglia di nazifascisti e arrestati. I motivi dell’arresto non sono chiari, si parla di un atto di sabotaggio verificatosi nel corso dei lavori della Todt a Sussak , oppure molto più semplicemente per le loro simpatie per i partigiani. Entrambi vengono portati prima a Trieste e poi trasferiti nel lager di Dachau e sottoposti ad un duro regime per oltre sei mesi. Il campo viene liberato dagli americani il 29 aprile 1945. Tornati a casa, fortunatamente sopravvissuti alle barbarie di uno dei campi più temuti, riprendono con il calcio, che permetterà loro di superare i momenti terribili a cui sono stato costretti. La decisione nel 1946 di stabilirsi a Cremona, dove Ottorino firma un contratto con la Cremonese e gioca con la maglia grigiorossa per le successive quattro stagioni, prima di finire la carriera a Udine e poi a Treviso allora allenato dal mitico Nereo Rocco. Cremona è ormai la loro casa e finiranno i loro giorni nella nostra città, dove peraltro hanno vissuto i figli (Euro, figlio di Ottorino, è morto proprio questa settimana) e i nipoti.

A conclusione di questo contributo in occasione della Giornata della Memoria, citiamo con piacere Primo Levi, l’uomo, l’intellettuale, lo storico sopravvissuto ai lager nazisti, che dalle pagine de “La tregua”, ci parla di sport e di calcio in particolare. In queste pagine Levi rievoca una partita disputata nel maggio 1945, quando sulla via del lungo e difficile ritorno, un gruppo di polacchi e uno di italiani si incontrano casualmente in uscita dal campo di Bogucice. E cosa fanno? In pochi minuti organizzano una partita su un campo improvvisato: la pace e la fine delle atrocità dei campi di sterminio, festeggiate con un gesto di sport! Levi registra anche l’esito di quella partita, vinta dai polacchi, facendoci respirare l’essenza più autentica del valore primario dello sport. Il senso pieno del ritorno alla vita e alla libertà, dopo gli stenti e le sofferenze, comunicato con immediatezza per mezzo del linguaggio universale dello sport.

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