Parità di genere sul lavoro Una strada ancora lunga

SOCIETÀ • Intervista a Maddalena Boffoli: «Nel mondo tante donne al vertice, non in Italia»


Benedetta Fornasari
La partecipazione femminile nel mondo lavorativo e politico non può essere ridotta a una mera percentuale, a un numero minimo, le cosiddette quote rosa, di cui riempirsi la bocca per vantare il raggiungimento delle pari opportunità di genere. Le quote rosa vanno analizzate innanzitutto su un piano culturale, prima ancora che su quello normativo. L’avvocato del lavoro Maddalena Boffoli ci spiega perché si rende necessario un cambiamento radicale nella mentalità e nei comportamenti individuali e collettivi, un vero e proprio cambio di passo, che consenta finalmente alle donne di occupare posizioni dirigenziali in ambito pubblico e privato.

Qual è la situazione delle quote rosa in Italia?

«Facendo un’analisi complessiva del panorama imprenditoriale italiano, le donne che ricoprono ruoli dirigenziali attualmente pesano il 19% del totale. Un risultato indubbiamente insufficiente e ben lontano dalla parità di genere ma che denota un miglioramento costante, seppur lento, anno dopo anno.Dal 2008 al 2020, si legge infatti nei dati forniti dall’Inps, la “quota rosa” all’interno delle aziende è salita del 56,33% a fronte di un calo del 10,1% dei business men. In Italia lavora ancora meno di una donna su due. Secondo gli ultimi dati Istat, il divario fra tasso di occupazione delle donne e quello degli uomini è del 18,9%. Se le donne hanno figli, la situazione peggiora: l’11,1% delle madri con almeno un figlio non ha mai lavorato».

Quali sono le cause?

«La questione di genere è la conseguenza di una serie di componenti tra loro interconnesse. È necessario un cambio culturale (che inizi già in ambito familiare e scolastico), per favorire nuove norme che abbiano riflessi diretti nel sistema economico. Ma anche l’applicazione delle norme può trovare piena soddisfazione solo se ci adattiamo al cambiamento. Pensiamo, ad esempio, alla norma dei congedi parentali, introdotti anche a favore dei padri nel 2012, ma che a tutt’oggi vengono utilizzati dagli uomini in casi di rara eccezionalità».

Lavoro e retribuzione. Come si collocano le donne?

«L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra i generi in Europa – a parità di mansioni e livello naturalmente -, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Fondamentale è il tema del gender pay gap, la disparità di retribuzione tra uomini e donne. Molteplici sono le cause del divario registrato in ambito salariale. In ambito giuslavoristico, è garantito il minimo contrattuale della retribuzione fissa di ciascun dipendente da dover rispettare in base a quello che prevede il Contratto Collettivo Nazionale applicato dall’azienda secondo il livello d’inquadramento della risorsa. Altro discorso è la parte del variabile e/o comunque del così detto “superminimo” che l’azienda è libera nel poter concedere o meno a ciascun dipendente. Del resto, se così non fosse, non ci sarebbe stato bisogno di approvare la Gender equality, l’accordo che arriva anche in ambito salariale: la parità salariale tra uomini e donne in Italia dovrà realizzarsi compiutamente, pena sanzioni durissime per chi non vi si attiene o dichiara il falso. Un passo importante per tutti, nel nostro Paese. Non a caso, la strategia adottata dall’Ue per la parità di genere 2020-2025 mira a eliminare proprio le sue cause più profonde: la minor partecipazione femminile al mercato del lavoro, il lavoro invisibile e non retribuito, il maggior ricorso al tempo parziale e alle interruzioni di carriera, nonché la segregazione verticale e orizzontale basata su stereotipi e discriminazioni di genere. Il problema, quindi, è anche sulle opportunità e sulla partecipazione alla vita economica delle donne, a cui fa necessariamente seguito la disparità di trattamento salariale. Sarò lieta, e ne sono molto fiduciosa, di raccontare un dato diverso tra qualche anno».

Quanto contano le donne in ambito politico?

«In Italia, stando a quanto riportato dalla classifica stilata dal World Economic Forum, la spinta maggiore verso la parità di genere si è registrata proprio nella politica: risultiamo il 41° Paese nella classifica, arrivando addirittura al 33° posto se si tiene conto delle donne nell’esecutivo. Il governo Conte II, infatti, tenuto in considerazione dalla rilevazione, aveva raggiunto un record storico con una percentuale del 34% fra ministre, viceministre e sottosegretarie. Tuttavia, il vero obiettivo sarà raggiunto, nel mondo politico e non solo, quando il criterio di scelta si fonderà solo sulle competenze e meriti, non fermandosi, quindi, alla prescrizione normativa. Del resto, a livello internazionale e nazionale iniziano a essere numerosi gli esempi di donne in ruoli di grande rilievo pubblico la cui competenza e determinazione appare di indubbio rilievo. Dall’attuale presidente della commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, alla leader della Banca Centrale europea, la francese Christine Lagarde. La vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e poi Linda Thomas-Greenfield, afroamericana, scelta come ambasciatrice all’Onu con il rango di ministro, fino alla recente nomina di Roberta Metsola, eletta presidente del Parlamento europeo».

La legge italiana come promuove e regola la parità di genere?

«La Costituzione italiana promulgata nel 1947 già prevedeva all’art. 37 la parità di diritto nell’ambito del mondo del lavoro e nell’ambito della famiglia tra uomo e donna. Nell’arco di settant’anni sono stati promulgati nuovi provvedimenti. Nel 2003 la modifica dell’art. 51 ha dato copertura costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi e amministrativi con i quali si volessero garantire forme di paritaria partecipazione tra donne e uomini. Cito anche l’approvazione della legge Golfo-Mosca nel 2012, una norma di estrema importanza storica per la corporate gender equality».

Quanti di questi provvedimenti hanno avuto un impatto concreto nella nostra società?



«Parto dal presupposto che le norme servano per regolamentare un vivere civile e quindi tornando al concetto non di uguaglianza ma di parità, che è lo stesso concetto che viene promulgato all’interno della Costituzione. A parità di situazioni devono esserci le stesse possibilità e gli stessi diritti. Il punto non è arrivare ad un mondo dove avremo 25 donne ministro e 25 uomini ministro, 20 calciatori e 20 calciatrici, ma dare a tutti la possibilità di scegliere e di compiere un percorso dove poi vinca il migliore. Oggi, invece, ci meravigliamo se due donne vincono il Nobel per la chimica, come se fosse un evento effettivamente eccezionale. Finché avremo questa eccezionalità vuol dire che non abbiamo ancora raggiunto una parità. Occorre allora un cambiamento culturale, a cominciare dall’ambito familiare e da quello scolastico, dove i ragazzi e le ragazze iniziano il loro vero percorso di formazione».

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