Riscopro il dialetto grazie alla vecchia maestra

 

Vanni Raineri

“Faccio una premessa”. Inizia così gran parte delle risposte di Agostino Melega, abituato a percepire la realtà da diverse prospettive, come risulta agevole per chi intraprende quella sorta di guerra contro i mulini a vento che è la difesa dei dialetti. E non c’è alcun dubbio che la realtà della vita Melega l’abbia vissuta da diversi punti prospettici. La biografia qui a lato si concentra sulla sua attività legata alla valorizzazione delle tradizioni e del dialetto (e non può certo riassumerla tutta, si pensi alle collaborazioni coi tre canali Rai), ma elencare le attività svolte dal nostro protagonista della rubrica “L’ospite in redazione” non è facile. Gli inizi da calciatore, o meglio difensore senza fronzoli, doganiere a Milano, assicuratore con più compagnie, studioso della storia della sinistra rivoluzionaria che confluì nei fasci e della simbologia iconica dell’arte romanica, sindacalista, educatore-animatore presso il Centro di formazione professionale gestito dall’Anffas di Cremona a favore di giovani diversamente abili, direttore della Scuola Edile di Cremona per vent’anni e per otto del Collegio di Ance Cremona. Insomma, parlare di personalità versatile sembra assai riduttivo.

Ma con lui vogliamo parlare soprattutto di dialetto e la prima domanda vuole tornare alle radici della volontà di annullare le lingue locali a favore dell’italiano, cui contribuì certamente nel dopoguerra l’avvento della televisione.

“Non si parla in dialetto”. Chi è stato bambino fino agli anni Settanta ricorda quell’avvertimento, quella sorta di lavaggio del cervello che evidentemente partiva dall’alto e che veniva pronunciato dagli insegnanti a scuola e anche dai genitori, istruiti a tal fine. L’impressione è che questa operazione abbia tolto anche valore alla grande tradizione popolare: si è cercato di cancellare, purtroppo con ottimi risultati, tutto ciò che è legato al dialetto, a partire dagli antichi proverbi.

«Già nel corso della mia infanzia a Sant’Agata Bolognese mi veniva impedito di parlare bolognese. Giunto ad Annicco all’età di 6 anni, trovai la maestra Giovannina Bozzetti che, nonostante la normativa glielo impedisse, parlava dialetto, per cui feci in fretta a imparare l’annicchese. Da lì ho continuato e mi ci sono appassionato. Fra l’altro - e qui iniziano le tante digressioni fatte da Melega in un fiume di parole - il dialetto è strettamente legato al folklore, il che mi ha portato ad ascoltare e osservare le vecchie tradizioni come fossero delle perle, tanto che alcuni termini nascono dalla mitologia. Ricordo che già negli anni Sessanta il professor Gianfranco Taglietti, assieme ad altri 4-5 intellettuali, lanciò un appello sulle colonne del quotidiano La Provincia per salvare il dialetto. Proprio da quell’appello sorse il Gruppo dialettale cremonese El Zàch e nacquero i concorsi di poesia e prosa dialettali in provincia cui partecipai come giurato: ebbi modo di conoscere e frequentare personaggi come Gianpietro Tenca nel Casalasco e Gigi Manfredini, oltre a tanti autori partecipanti. Ora i concorsi tendono a scomparire, per fortuna c’è il concorso intitolato al dottor Paolo Brianzi, che frequentando la realtà contadina raccolse proverbi dialettali, e ho saputo che purtroppo anche il Gruppo El Zàch sta per spegnersi: i vari fiammiferi accesi se ne sono via via andati, e le nuove adesioni sono rarefatte. Da volontario sto frequentando il museo della civiltà contadina, e porto avanti con l’Auser il corso di dialettologia d’arte, in cui consegno ad ogni incontro una dispensa, presento poesie e una ricerca filologica dei vari vocaboli usati. Ci sono località che hanno saputo mantenere un legame stretto col dialetto. Mi viene in mente Olmeneta: ho parlato in dialetto con Mario Coppetti che mi disse di avere avuto lì una lunga esperienza di vita, e anche Gigi Manfredini durante la guerra era sfollato ad Olmeneta, dove ha dimostrato che col dialetto si può anche parlare d’amore e fare filosofia, traducendo in cremonese il Ruzante dopo una ricerca accurata. Ecco, Olmeneta è un centro conservativo del dialetto. Ricordo ancora la lettura nel chiostro di Santa Chiara nei primi anni Settanta. In questi giorni ci dobbiamo trovare per ricordare al meglio un’altra figura importante quale Walter Benzoni».

Ha detto purtroppo che El Zàch rischia di estinguersi per le scarse adesioni. Le nuove generazioni non sentono il richiamo dell’antica lingua?

«È molto difficile, anche se vedo una contraddizione: se osserviamo attentamente i ragazzi che fanno canottaggio, che vanno in piscina o che giocano a calcio, parlano in dialetto, quindi è una presenza spontanea, così come avviene nella tifoseria, dove entra anche un discorso di tipo identitario, in contrapposizione con gli avversari. Io credo però che chi gestisce un’attività che si relaziona con i turisti dovrebbe caratterizzarsi con una specificità che oltre ai piatti e alle vecchie ricette trovi anche una dimensione linguistica».

A proposito di giovani: un cantante del recente Festival di Sanremo ha scelto come nome d’arte Tananai. Chi ha cercato di risalire al significato ha letto sui dizionari che è un sinonimo di frastuono. In realtà era il nomignolo che il nonno dava al ragazzo, e ancora oggi per “tananai” i bresciani indicano le persone o cose di cui non si conosce l’utilità. Dirlo a un ragazzino equivale chiamarlo teppistello.

«È proprio nelle case degli anziani che rimangono oggi i depositi dei dialetti, e credo che le varie Pro Loco e gli assessori alla cultura dovrebbero attivarsi per aprire un rapporto con gli anziani per conservare un patrimonio e una cultura che altrimenti andrebbero perduti. In alcune località si sono fatti dei dizionari, questo è un lavoro prezioso, anche se sappiamo che il dialetto, come ogni lingua, è vivo, e quello che parlava la madre di mia moglie è diverso da quello che si parla oggi».

E infatti capita che i cremonesi che sono andati nel sud del Brasile, dove si recarono tanti nostri avi a fine Ottocento, restino allibiti nel sentire parlare i nostri dialetti ma nella loro versione arcaica, senza l’influenza dell’italiano.

«È così, in quei casi il dialetto si conserva, mentre se leggiamo oggi le poesie al tempo del Barbarossa ben si nota la grande trasformazione. Restano anche tradizioni come quella del falò, che si ripetono da tempi antichi, dove i cacciatori andavano a sparare alle “vecchia” che stava in cima».

Dagli anni ’80 il dialetto è stato anche uno strumento per marcare differenze politiche, con la Lega Nord. Questa strumentalizzazione ne ha valorizzato la riscoperta e ha rialzato la barriera nazionale del sospetto?

«Io guardai con simpatia questo fenomeno, quando sui cartelli dei vari paesi veniva aggiunto il nome tradizionale, e ho trovato anche errori. Certo è vero che difendendo la tua specificità marchi una differenza con le altre, è inevitabile».

L’ultimo suo libro è “Barbatùus, lo zio materno dei ragazzi”, una filastrocca.

«La raccontavano le nonne ai nipotini mentre i genitori erano al lavoro. Ha radici molto antiche in Lombardia e in alcune aree della Svizzera, anche se ho scoperto pure in Calabria che lo zio materno era il padrino vero in famiglia: era lui a dare consigli per affrontare l’adolescenza».

Lei ha scritto che nel 1925 Maria Storti Azzoni scrisse questa favola di tradizione orale in casalasco.

«Vero, poi lo stesso fu fatto in soresinese nel ’76 e in cremonese da Luciano Dacquati nell’81».

Il fatto che in ogni piccolo paese si parli un dialetto diverso non è un limite?

«È evidente: Tenca mi diceva che solo a Casalmaggiore ce ne sono almeno una dozzina, e spesso anche una via separa forme dialettali diverse. Qui parliamo di un sicuro defunto; la prospettiva è inevitabile, non credo ci siano possibilità di salvare il dialetto, può essere che rimangano sacche di resistenza».

Ora sta preparando “La favola del torrone a Cremona”. Fu proprio lei a iniziare la Festa del Torrone, così come ideò “I mascher de Cremùna”.

«Nell’80 creai una società, la Fortitudo mea, grazie all’aiuto di Fulberto Ferragni, il nonno della celebre Chiara e nipote di Odoacre, ornitologo cui Cremona ha intitolato una via. Fulberto conosceva tutti i nomi degli uccelli di fiume in italiano, in latino e in dialetto. Ci misi mesi a mettere assieme Sperlari, Dondi e Vergani attorno a quella festa, poi vi riuscii con l’aiuto dell’impresario “Ciuffo” Galimberti. Venni a sapere che dopo la battaglia di Agnadello i veneziani portarono via le statue di Bianca Visconti e Francesco Sforza, e le trovai nella Pinacoteca di Vicenza, tanto che allo Zini in una partita contro il Vicenza i tifosi esposero uno striscione con scritto “Vicentini restituiteci le statue”. Anche Canale 5 fece un servizio su quella storia a Cremona, e alla fine in piazza Duomo facemmo la festa. Grazie a Vercesi feci anche una conferenza stampa nazionale».

La primogenitura della festa dunque è sua.

«Se altri l’abbiano dimenticato non so, io non lo dimentico».

Nel libro in preparazione ci sono tanti soprannomi recuperati. A volte si evita di farlo perché per alcune famiglie sarebbe offensivo.

«È vero, ma serviva proprio a identificare la famiglia. Ad Annicco ne ho trovati tanti che userò».

Ma la mente di Melega non si ferma.

«Ho terminato l’Inferno di Dante di Sergio Marelli in cremonese: ho finito proprio ieri con anche la traduzione italiana e le note di tutti i personaggi, e ho già scritto la traduzione in cremonese delle prime parti dell’Odissea. Per fortuna a 12 anni i miei genitori mi diedero il permesso di scrivere a macchina e di usare il telefono».

Chi è Agostino Melega

nato nel bolognese ma trasferitosi con la famiglia a 6 anni ad annicco

Agostino Melega è nato in provincia di Bologna nel 1948, e nel 1954 la sua famiglia è giunta nel Cremonese, ad Annicco. Laureato in Pedagogia a Parma, ha svolto diverse attività ma le tradizioni popolari e il dialetto hanno sempre acceso la sua passione. Una volta raggiunta l’età della pensione ha potuto dedicarsi completamente agli interessi culturali da sempre amati. Ha scritto diversi libri, ideato e organizzato grandi eventi popolari e collaborato in pratica con tutte le testate giornalistiche presenti a Cremona. Ha fatto parte delle giurie in concorsi di poesia e prosa indetti a San Daniele Po, Gussola e Offanengo, è stato per anni attore presso il Gruppo Studio di Teatro di Cremona, ma anche drammaturgo e regista. È stato presidente della Corale lirica Ponchielli-Vertova, e da anni cura per Auser Unipop di Cremona un corso di dialettologia d’arte. L’ultimo libro pubblicato è “Barbatùus, lo zio materno dei ragazzi” (Ed. CremonaProduce), e sta concludendo “La favola del torrone a Cremona”.

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