Dimissioni dal lavoro, fenomeno da valutare

OCCUPAZIONE • Nel 2021 sono cresciute sensibilmente. Alla ricerca dei motivi, tra Covid, smart working e Rdc


VANNI RAINERI
Il post Covid sta mettendo in luce un fenomeno inatteso, che riguarda le tante dimissioni dal lavoro. Ora che si parla di risalita del pil, di lavoro che torna, assistiamo a questo scenario anomalo, cui si cerca di dare una spiegazione plausibile. Ci si è abituati allo smart working e non ci si vuole rinunciare? L’alternativa del reddito di cittadinanza per qualcuno è appetibile? Il Covid, che ci ha tenuti spesso in casa, ci ha disabituato ad uscire per affrontare tante ore di lavoro? O può aver contribuito la paura di contrarre il Covid sul luogo di lavoro? Parte di queste dimissioni erano già programmate ma sono state rinviate con la ripresa piena dell’attività? Chissà, forse un po’ tutto questo, ma iniziamo a valutare la portata del fenomeno.
Gli ultimi dati raccolti riguardano le dimissioni dell’ultimo trimestre del 2021, che hanno evidenziato un tasso superiore al 3%, dato mai raggiunto negli ultimi dieci anni.
La tendenza non è visibile solo in Italia, anzi altrove è ancor più marcata, in particolare negli Stati Uniti, ma è ben presente anche nel nostro Paese.
Da una prima analisi sembra che non si possa parlare di dimissioni rinviate: basta confrontare i dati del 2019 con quelli del 2020 e del 2021 per verificare come questi ultimi non compensino un calo dell’anno precedente, anzi sembrano consolidarlo. Questa prima ipotesi sembra dunque da scartare.
Quanto all’incidenza della pandemia, alcuni economisti italiani hanno elaborato indici sulla base dell’esposizione al Covid e del lavoro in remoto per le diverse professioni lavorative, per valutare se un alto indice corrispondesse a un’elevata percentuale di dimissioni. Il risultato però non è stato soddisfacente per spiegare nemmeno con questa motivazione il fenomeno: le relazioni non sembrano strette.
Appare dunque come si tratti di un fenomeno complesso e non facilmente giustificabile. Resta il dato di fondo: gli italiani si dimettono dal lavoro molto più frequentemente che in passato.
Ma dove sono andati questi lavoratori? Una risposta ha cercato di darsela il sito lavoce.info. Si tratta, insomma, di “rifiuto del lavoro” o di “rifiuto di quel lavoro”?
Dalla ricerca emerge come poco più di un terzo dei lavoratori che si dimettono iniziano un nuovo lavoro nel giro di una settimana, il che porta a pensare che al momento delle dimissioni avessero già l’alternativa in tasca. Attorno al 2020 poi tale percentuale sale fino al 40%. Non solo: il tempo trascorso tra un lavoro e l’altro era di 13 giorni nel 2017, ed è sceso a 10 giorni nel 2020.
Aumenta anche il numero di lavoratori che cambiano il settore lavorativo, il che sembra mostrare come a volte si tratti di una vera e propria “scelta di vita”, forse condizionata dal periodo di lockdown. Sta di fatto che emerge un maggiore dinamismo del mercato del lavoro italiano: i lavoratori che lasciano un’occupazione trovano più spesso un nuovo lavoro in fretta e più spesso occupazione in un diverso settore produttivo.
Non resta che attendere i primi dati del 2022 per confermare il fenomeno. Nel frattempo ha fatto discutere l’ultimo report dell’Istat che ha mostrato come nel mese di marzo 2022 il numero di occupati nel nostro Paese è superiore di 81mila unità rispetto al mese precedente e di 804mila rispetto a marzo 2021. Complessivamente il tasso di occupazione è salito al 59,9%, record dall’inizio della rilevazione (2004). Nel contempo diminuiscono gli inattivi. Il maggior incremento riguarda i dipendenti a termine, ma anche quelli a tempo indeterminato sono in crescita.
Ovvio che una maggiore facilità di trovare occupazione possa facilitare la scelta di dimettersi per inseguire un lavoro che soddisfi, e questa è certamente una conseguenza positiva.

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