Alla scoperta del mondo della psicanalisi

CULTURA - L’autore e insegnante Giovanni Raimo parte dalla riflessione filosofica sulla fisica


FEDERICO PANI
Modelli teorici diversi costruiscono oggetti diversi e, nei saperi empirici, fanno emergere persino fenomeni diversi. Vale per molte scienze, forse tutte, certamente per quelle della psiche. Col suo libro “Psicoanalisi e filosofia della scienza”, Giovanni Raimo (nella foto) fornisce allora “un’introduzione alla psicoanalisi per filosofi interessati alla filosofia della scienza” e, al contempo, “un’introduzione alla filosofia della scienza per psicoanalisti, psicologi o psichiatri interessati al tema del pluralismo dei modelli in psicoanalisi”. In altre parole, Raimo spiega da un lato che la psicoanalisi non si ferma certo a Sigmund Freud, dall’altro che il pluralismo dei modelli non ne mina l’attendibilità. L’autore, cremonese e insegnante di storia e filosofia all’I.I.S. “Arcangelo Ghisleri” di Cremona, è dottore di ricerca, laureato in filosofia e psicologia clinica e ha conseguito anche un master in criminologia.

Quali sono i miti che la filosofia riesce a sfatare in materia di psicoanalisi?

«Nel mio libro affronto principalmente due miti: il primo è quello che vede i diversi modelli psicoanalitici come diverse descrizioni della mente, intesa quest’ultima come una sorta di oggetto che possiamo osservare e sezionare. Questo mito porta necessariamente allo scetticismo, ossia alla tesi secondo la quale se abbiamo tanti modelli diversi, allora significa che non siamo davvero in grado di descrivere la mente, ossia che ogni psicoanalista tenta, senza successo, di indovinare com’è fatto il nostro cosiddetto mondo interno. Questo mito ci dice sostanzialmente che se un modello è vero, allora tutti gli altri sono falsi e che se abbiamo tanti modelli diversi e incompatibili tra loro allora probabilmente nessun modello è vero. Il secondo mito che affronto è il riduzionismo, ossia quella tesi che sostiene che un termine metapsicologico (“Io”, “Es”, “Archetipo”, “Inconscio” ecc.), per essere sensato, deve essere riconducibile ad un qualche funzionamento cerebrale. Questo mito ci porta a pensare che se la psicoanalisi non può essere ricondotta totalmente alle neuroscienze, ossia allo studio del cervello, allora non è davvero una disciplina scientifica, ma qualcos’altro. Nel mio lavoro cerco di sfatare questi due miti, molto presenti nel mondo della psicologia e della psichiatria, partendo dalla riflessione filosofica sulla fisica, che è unanimemente considerata la più dura tra le scienze empiriche».

In che modo una teoria più consapevole filosoficamente rende più efficace il lavoro del clinico?

«Credo che sfatare quei due miti attraverso una visione filosoficamente più avvertita della psicoanalisi, porti più facilmente uno psicoanalista da una parte ad utilizzare più modelli contemporaneamente (abbandonando il presupposto che solo un modello può essere vero) e dall’altra a riflettere psicoanaliticamente senza preoccuparsi troppo delle neuroscienze, che a livello clinico aiutano molto poco il terapeuta. Con questo non voglio dire che gli studi sul cervello siano inutili, anzi, ma voglio semplicemente sostenere che avere un dottorato di ricerca in neurobiologia non aiuterebbe molto il clinico all’interno del setting. Detto questo, ritengo fondamentale sia integrare la psicoterapia con la farmacoterapia (quando ha senso farlo), sia misurare l’efficacia della psicoanalisi rispetto ad altri approcci terapeutici».

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