L'angolo della storia - Manzoni, le suggestioni degli animali in cascina

I 150 anni dalla morte
Il prossimo 22 maggio si celebra l’importante ricorrenza. L’infanzia dello scrittore nella cascina Costa di Galbiate ha favorito l’utilizzo ne “I promessi sposi” di diverse espressioni che richiamano la fauna


ALESSANDRO ZONTINI
Il 2023 coincide con i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni e, per l’occasione, si annunciano, copiosi, gli avvenimenti culturali dedicati al noto autore, con inizio delle celebrazioni alla Biblioteca Braidense di Milano che conserva il manoscritto originale dell’ode “Cinque Maggio”. Nato a Milano il 7 marzo 1785, ed ivi mancato ai vivi il 22 maggio 1873, Manzoni è considerato uno dei più notevoli romanzieri - se non il mag- giore - della letteratura italiana. La puntualizzazione è ancorata sia all’ampio respiro letterario della sua più celebre opera, “I promessi sposi”, sia perché l’autore milanese ha posto le basi per il concetto di romanzo moderno ricercando, esattamente come fece Dante secoli prima, l’unità linguistica della Peni- sola attraverso un’opera che resterà, meritoriamente, immortale e ben collocata sugli scaffali di un’ideale biblioteca della più alta letteratura nazionale. Pur poggiandosi su robuste basi culturali di carattere neo-classico, Alessandro Manzoni volse la sua attenzione all’ambito romantico e volle ricorrere ad una lingua che attraverso accurate descrizioni (che forse, oggi, paiono esageratamente lunghe e prolisse) e ad una terminologia che amalgamasse la lingua scritta, troppo elevata per raggiungere tutti gli strati sociali, e la lingua parlata, decisamente più chiara, consentisse l’accesso e la comprensione della sua più celebre opera al più vasto possibile pubblico dei lettori. Questo percorso Manzoni lo ebbe a compiere con le numerose rivisitazioni lessicali del suo celebre romanzo, originaria- mente noto come “Fermo e Lucia” e che, nella sua definitiva stesura, nota come “I promessi sposi”, supera una scrittura troppo arcaica e desueta finendo per essere, così, leggibile da chiunque. Ridurre, tuttavia, Alessandro Manzoni soltanto all’autore delle vicende di Renzo e Lucia sarebbe gravemente errato. Infatti, come noto, per il disappunto di nu- trite schiere di studenti delle scuole medie e superiori, alcune tra le sue più emblematiche opere sono, da sempre, oggetto di obbligati, ma annoianti e poco appassionanti, studi. Tra quelle che non si possono non citare “Il Conte di Carmagnola” (Milano, Ferrario, 1820), “Adelchi” (Milano, Ferrario, 1822), “Il cinque maggio” (Torino, Marietti, 1823), “Storia della colonna infame” (Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840). Se si dovesse organizzare un sondaggio di gradimento tra gli studenti, Alessandro Manzoni risulterebbe sicuramente uno dei personaggi più detestati. E questo nonostante abbia scritto, a giudizio di chi scrive e senza alcun timore di essere smentito, il più bel passo della letteratura italiana, ovverosia “La madre di Cecilia”. Renzo (nel capitolo XXXIV dell’opera), proseguendo nella ricerca dell’amata Lucia, giunge in una Milano preda della peste nella quale circolano solo i monatti, soggetti che erano guariti dal morbo, per cui immuni allo stesso e, conseguente- mente, unici nelle condizioni di rimuovere i cadaveri dei defunti. Ecco che il protagonista sfila davanti ad una porta dalla quale esce la mamma di Cecilia, una donna che regge il corpo della propria bimba: “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo - omissis - Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri”. Un capolavoro, elegiaco, dolorosissimo e sublime condensato in pochissime righe. Una poesia irripetibile in una nazione, l’Italia, ove si conferiscono circa mille premi letterari all’anno. Tre “capolavori” al giorno che, però, nessuno conosce. Tornando agli scolari non si può non dar loro ragione. Troppo spesso, a scuola, il capolavoro manzoniano viene propugnato con una veste troppo retorica e non direttamente poetica e “I promessi sposi”, per come proposto nei patri istituti, finisce per essere una storia vaga, noiosa e poco accattivante risultando, viceversa, assai più appassionanti le vicende a fumetti de “I promessi paperi” o de “I promessi topi” nei quali, rispettivamente, Paperino e Topolino rivestono il ruolo di Renzo. La stessa analisi si può serenamente applicare, per esempio, alla “Divina Commedia” che, oltre all’ovvia, rigorosamente accademicamente, chiave di lettura offerta dalla scuola, può potrebbe essere compresa affrontata seguendo l’architettura dei canti, i colori dei canti, i rumori presenti nei canti, etc. Eppure “I promessi sposi” sono stati concepiti dall’autore meneghino in un affascinante momento storico di gravi sovvertimenti sociali e di costume (basti pensare al dilagante conflitto tra la campagna, intesa come mondo tradizionale, e l’urbanizzazione dei centri abitati, oppure alla sempre maggior contrapposizione tra lavoro agreste ed attività industriale). Uno spaccato sociale interessantissimo. Le vicende di Renzo e Lucia, ambientate nella Lombardia durante la dominazione spagnola tra il 1628 ed il 1630, non sono, così, esenti da aspetti di costume e, pure, schiettamente pittoreschi che con- sentirebbero un’interessata e appassionata lettura. Peraltro, proprio come la Divina Commedia, il capolavoro manzoniano ha consegnato ai posteri numerose espressioni, ormai parte del patrimonio linguistico nazionale, anche se spesso di carattere colloquiale. Per esempio, i celeberrimi capponi di Renzo che “s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”, alludono e sono la raffigurazione della stupidità umana. Quindi, è verosimile che una disamina sui frequenti, intelligenti e sintomatici, rimandi di Manzoni al costume, alle espressioni o alla fauna - che consente all’autore di architettare ben congeniate similitudini - potrebbe avvicinare alla lettura dell’opera una folta schiera di, quantomeno, incuriositi studenti. Gli spunti sulla fauna, interessantissimi, non mancano. Il fanciullo Manzoni che, sappiamo con certezza, trascorse l’infanzia nella cascina “Costa” di Galbiate vicina a Milano, deve aver osservato a lungo il comportamento degli animali che razzolavano nell’aia traendone elementi di semplice e sintomatica etologia che, in seguito, avrebbe ripreso ed applicato alle vicende umane dei protagonisti del suo celebre romanzo, sia ricorrendo alla figura retorica che come mero pittoresco rimando. Al giovane Alessandro, evidentemente, piacque moltissimo il pollame e, infatti, i pennuti scorrazzano impunemente lungo tutto l’arco narrativo de “I promessi sposi” a partire dal capitolo III laddove l’autore, attraverso Agnese, pare quasi presentare, al sorpreso lettore, i già citati capponi ed i simpatici pulcini. Questi gialli uccelletti, poi, ritornano spessissimo, come nel capitolo XX: l’Innominato, rivolto ai suoi uomini, indicando la povera Lucia, tuona: “... non vedete che costei è un pulcin bagnato...”. e, come un pulcino, è descritto un altro personaggio “simbolo” del romanzo, Don Abbondio: nel capitolo XXV, “il suo spirito si trova tra gli argomenti del Cardinal Federigo come un pulcino tra gli artigli del falco” mentre nel capitolo XXIV la moglie del sarto, che sale verso il castello ove si trova Lucia, dichiara di aver trova- to in Don Abbondio “...un uomo da poco, più impicciato che un pulcin nella stoppa”. Quello che si dice essere un “Don Abbondio”. La passione manzoniana per i simpatici pennuti si riaffaccia spesso assai prepotentemente, per esempio quando, nel capitolo VIII, i popolani, dopo la fuga degli sposi - per ora solo promessi - ed il fallimento dell’azione dei bravi - denunciano: “... se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un’aia deserta...”. Bellissima similitudine. “I promessi sposi” è tutto uno sbatter d’ali. Nel capitolo VII, i bravi, posti a guardia all’osteria dove Renzo aveva invitato Tonio e Gervaso, decidevano di fuggire: “Viene gente da tutte le parti, lasciamoli andar tutti al pollaio” e Renzo, nel capitolo III, ben definisce l’“Azzeccagarbugli”: “Il dottore non è un’oca...”. Nell’ideale fattoria manzoniana non mancano altri animali tipici della campagna. Quella milanese di metà 800, ovviamente. Compaiono le pecore, anche nei brani più intensi e poetici e, in particolare, nel celebre passo: “Addio monti sorgenti dalle acque...”, Lucia, in mezzo al lago, scorge le case sul declivio come “branchi di pecore pascenti” mentre, nel capitolo X, appare Gertrudina come una
“pecora smarrita” e, nel XXIII, Don Abbondio semplicemente e inevitabilmente “È un agnello”. Siccome (ci aiutano anche Esopo, Fedro e La Fontaine) dove c’è un agnello non manca un lupo, ecco che, nel capitolo XXV, Lucia decide di non tornare a casa da Agnese, perchè “La pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo”, ovverosia Don Rodrigo. Talvolta questo ricorso ad efficaci espedienti letteral-zoologici assurge a sentito tributo. Così come il Dante nel canto XXX dell’Inferno ci propone le “ombre smorte e nude che morendo correvan di quel modo che il porco quando del porcil si schiude”, anche Manzoni, nel capitolo VIII, volendo, con ogni evidenza, omaggiare il Divin Poeta, precisa che i bravacci, terrorizzati dai rintocchi della campana se la svignano “come il cane che scorta una mandria di porci, corre or qua or là ...”. Al giovane Manzoni piacquero tanto anche i cavalli e, infatti, Renzo Tramaglino, nel capitolo XV, “...è come un cavallo bizzarro” e l’Innominato, nella “notte dei rimorsi” si trasforma, nel capito- lo XXI come “un cavallo divenuto tutt’a un tratto restio per un’ombra...”. Efficacissimo. Tra le pagine del romanzo, ronzano anche gli insetti: le immagini che si affastellano in testa a Gertrudina sono, nel capitolo IX, descritte come un mazzo di fiori appena colti “messo davanti a un alveare”, gli occhi di Renzo ubriaco, nel capitolo XXIV, “or scintillano ed or si eclissano come due lucciole” (gli stessi lepidotteri che affascinarono Dante, come si evince dal canto XXIV dell’Inferno, e che sedurranno, con il loro metafisico fascino, in seguito, anche Pier Paolo Pasolini). Manzoni, con moto quasi da entomologo, col- loca, poi, le formiche nel capitolo XII, le vespe nel XIX e i mosconi nel XXXVIII. Fa pure capolino, nel XXVII, la sfuggente salamandra. Non che si voglia ridurre “I promessi sposi” ad una mera compilazione, degna di un trattato di zoologia, ma la ricerca di questi - e cento altri - curiosi particolari renderebbe la lettura di quest’opera affascinante anche al più svogliato studente. Un modo coinvolgente di studiare un romanzo classico che, viceversa, finisce per apparire come impenetrabile e noioso fino all’estremo, Invece si continua, in modo passatista, ad insistere sulla religione nei Promessi Sposi, sulle doglianze vittimistiche di Lucia, sulle conversioni spirituali e su altre tematiche sonnifere all’inverosimile, gabellandole per novità.

P.S. si consiglia, in ogni caso, di recuperare “I promessi paperi” (su Topolino n. 1086 e 1087 del 1976) e “I promessi topi” (su Topolino nn. 1769, 1770 e 1771 del 1989), autentici capolavori disegnati.

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