Storia, la mia, di un esame di maturità

Il mondo ribolliva, in quell’estate del 1974: per il clima politico e sociale. Erano gli anni ‘70, anni di contestazione


di Daniele Tamburini

L'esame di maturità non si dimentica, è un ricordo indelebile: penso che sia così per tutti. Non ero preoccupato, ero abbastanza tranquillo, ma la notte prima non ho chiuso occhio. Una notte insonne trascorsa ad ascoltare musica, la musica che mi piaceva: Emerson, Lake and Palmer, King Crimson, Gentle Giant. Avvenne molti anni, anzi, molti decenni fa: era il 1974. E’ vero, erano gli anni '70, anni di contestazione, “no alla scuola dei padroni”, si cantava nei cortei. Ma io ero sempre stato un po’ solitario, un po’ secchione, e alla scuola ci tenevo, eccome, anche perché in famiglia, pur composta da gente semplice e illetterata, lo studio era considerato essenziale, direi sacrosanto. Insomma, a quell’esame ci tenevo, e molto. Una maturità scientifica, all’epoca, era importante: ci si sentiva persone preparate, in grado di affrontare quell’Università che doveva essere un percorso obbligato. Come cantavano i Nomadi, effettivamente, la nostra era una generazione preparata. Il mondo, intorno a me, ribolliva, in quell’estate del 1974: per il clima politico e sociale, e per il gran caldo. La crisi petrolifera e l'austerità avevano tolto alla gente alcune solide certezze; inoltre, c'erano state, terribili, le stragi: Piazza della Loggia, poi l'Italicus; si parlava di preparativi di golpe, di caserme in stato di allerta. Il ministro di allora, Tanassi, non smentì, e alimentò la tensione. Pochi mesi prima si era svolto il referendum sul divorzio: la prima volta in cui parte dell'elettorato democristiano non seguì il partito, una debacle per Amintore Fanfani. Bollivo anch’io, perché, proprio come in una famosa canzone di Antonello Venditti, mi piaceva una moretta che filava tutti, meno che me. Alternavo lo studio a qualche riunione al collettivo studentesco (che comunque frequentavo) e alle partite di calcetto, che servivano moltissimo, anche per sfogare la tensione. Inoltre, la moretta veniva a vederci, insieme alle sue amiche … Nella città toscana in cui crescevo, quell'estate faceva tanto caldo: la maturità iniziava più tardi di quanto accada oggi. Ricordo che finii a luglio inoltrato: un dramma. Per fortuna, qualche anno prima, nel 1969, un benemerito ministro (benemerito anche per altri motivi), e cioè Fiorentino Sullo, aveva riformato l’esame, portandolo a due prove scritte e a due materie per il colloquio (di cui una a scelta del candidato), con una commissione esterna, ma con un componente interno. Intorno, ho già detto, il mondo ribolliva e stava cambiando in profondità, e noi volevamo esserci; io, nonostante tutto, volevo esserci. I modelli culturali tradizionali subivano una trasformazione radicale. Il boom degli anni Sessanta e le condizioni economiche della classe lavoratrice, migliorate dopo le lotte sindacali, avevano provocato un incremento dei consumi. Gli studenti protestavano contro un sistema scolastico e universitario fermo e chiuso, gli operai volevano più potere nelle fabbriche, le donne non accettavano più il potere patriarcale. Per parafrasare Mao Ze Dong, una grande confusione sotto il cielo. Ma era eccellente la situazione? A me sembrava di sì: eravamo fiduciosi nell’avvenire e pieni di speranza, anche se avremmo voluto cambiare tutto. Delle prove da me sostenute ricordo tutto. Furono italiano e matematica per lo scritto, e portai filosofia e fisica all’orale. In matematica presi un voto esaltante: nove e mezzo con elogio da parte del professore, un tipo molto elegante, con la barba curatissima. In filosofia non andò bene: avevo portato un percorso che, partendo da Leopardi, portava a Schopenhauer e approdava ai pre-marxisti. Il professore si incavolò: “Basta con questi pre-marxisti, mi parli di Kant”. Kant si faceva in quarta, e poi non mi piaceva: un disastro. E dire che la mia professoressa mi aveva messo in guardia. Per fortuna, nelle altre materie ero al massimo dei voti. Nei giorni precedenti a quello dell’orale, mi azzardai ad andare ad ascoltare alcuni amici che erano, nel frattempo, esaminati. L’avessi mai fatto … I docenti mi sembrarono orchi, che avrebbero potuto mangiare in un boccone la nostra, pur robusta, prof di lettere (un must!) che era la componente interna. Circolavano svariate leggende metropolitane: a un candidato avevano lanciato il foglio protocollo con il tema svolto, un altro era uscito piangendo, e via così. Ma una cosa la voglio raccontare: accadde che a qualcuno fosse chiesta l’altezza precisa del poeta Giacomo Leopardi. La cosa riempì d’orrore chi “portava” italiano come prova orale: hai visto mai che avessero potuto chiedere la circonferenza del giro vita di Carducci o il numero di scarpa di Guido Gozzano? Io gongolavo, forte delle mie scelte, ma poi mi venne un dubbio atroce: e se mi avessero chiesto l’altezza di Friedrich Hegel? Naturalmente, era tutta una burletta, ma che uscì, seppur con tono dubitativo, anche sul quotidiano locale. Della maturità di oggi so poco. Mia figlia è tranquilla e questo mi fa piacere. I temi scelti quest’anno mi sono sembrati di buon livello: su ognuno, a mio parere, ci sarebbe stato da scrivere molto. “Ma non sono argomenti trattati nei programmi”, ho sentito dire. Beh, questa mi pare una triste condizione di resa della scuola, che avrebbe bisogno di meno chiacchiere sulla managerialità etc., e più consistenza e capacità di insegnamento in senso verticale. Cosa voglio dire? In maniera completamente, visceralmente contraria a quanto ha sostenuto Alessandro Baricco, credo che la scuola debba essere capace di insegnare che la cultura non è un surfing su una superficie scintillante, ma è capacità di muoversi in verticale, nelle profondità del pensiero e nelle altezze dell’arte, della speculazione matematica, della poesia, della musica, in un movimento incessante e altamente formativo. In questo modo, io credo, si insegna a diventare davvero colti, ad affrontare, cioè, la vita in grado di conquistare la capacità di valutazione perspicua, di critica costruttiva, e di farsi una cultura propria, anche se “non è nel programma”. Ma questo movimento del pensiero e dello spirito non potrebbe certo essere valutato con i test Invalsi. Ditemi voi, chi ha interesse a governare su un popolo colto? Comunque, ad ognuno il suo tempo: io me lo sono goduto e non ho rimpianti. Forza ragazzi, il futuro (forse un futuro meno spensierato) vi attende. Abbiamo tanto, ma proprio tanto, bisogno di persone preparate.

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