Una voce fuori dal coro: gli sgradevoli personaggi emblematici che hanno costituito un modello con cui guardare in tralice momenti e atteggiamenti della nostra storia
Chissà se il ragionier Fantozzi avrebbe apprezzato una cerimonia funebre iniziata in Campidoglio. Il fautore del “rutto libero” in canottiera ha indubbiamente segnato la comicità italiana, inventando personaggi e maschere che, piacciano più o meno, si sono fatte spazio non solo nella storia del cinema, ma anche del costume del nostro Paese. Basti pensare a quell’aggettivo “fantozziano”, derivante dal suo personaggio forse più famoso, il ragionier Ugo Fantozzi. Non erano personaggi gradevoli, quelli di Villaggio: a cominciare dal professor Kranz, passando da Giandomenico Fracchia, ipertimido e pasticcione, per giungere appunto a Fantozzi. Che tipo di uomo disegna Fantozzi? E proviamo a pensare: che tipo di lavoratore? Si sa che, da molto tempo, il tema del lavoro è scomparso dal dibattito pubblico: riflettere sul personaggio Fantozzi consente di affrontarlo, sia pure in chiave limitata ad una “maschera” cinematografica. Il ragioniere imperversava sugli schermi e io mi chiedevo: gli italiani ridono per via delle gag, delle battute, delle invenzioni linguistiche, o, forse, si ritrovano un po’ in lui? E qual è la caratteristica di Fantozzi più evidente, se non di essere pavido con i forti e aggressivo con i deboli? Si ribella, ma dietro le spalle: è il tipo di persona che fa l’inchino davanti, e, dietro, il gesto dell’ombrello. La volta che si ribella in modo esplicito, lo fa per l’imposizione, ripetuta fino al parossismo, della visione de “La corazzata Potëmkin” di Ejzenštejn (ricorderete senz’altro la celebre frase che dà il via alla rivolta: “La corazzata Kotiomkin – ovvio nom de plume – è una c….a pazzesca!”). E giù tutti a ridere, in platea. Di sicuro, un certo intellettualismo di sinistra viveva anche come un vezzo la passione per certa cinematografia: peccato, però, che negli anni questa battuta sia diventata bandiera del becero antintellettualismo che ha percorso e percorre i nostri tempi, fino a giungere alla nota affermazione per cui con la cultura non ci si fa un panino. Ebbene sì, Fantozzi ha sdoganato atteggiamenti che si dissero liberatori: altro che film impegnati, vuoi mettere vedere la partita in mutande, canottiera e, appunto, rutto libero? Mi chiedo: fu vera gloria? Il passo dalla risata al farne un manifesto di stile è stato breve, pericolosamente breve.Ed era così, è così il lavoratore medio? Il primo Fantozzi uscì nel 1975, nel pieno della stagione delle lotte operaie e studentesche e delle riforme che avrebbero segnato indelebilmente la nostra storia. Nel 1970 c’era stato lo Statuto dei lavoratori: si affermava il diritto a stare con dignità sul posto di lavoro. Ma tutto questo, nella megadittadi Fantozzi non si è neppure affacciato: o sì? O possiamo supporre che anche lì ci fosse chi si impegnava, chi lottava, chi non si piegava alle vessazioni, ma che Fantozzi e i suoi pari proprio non vedevano? Allora, perché il successo, perché l’identificazione? Fantozzi è grasso, sboccato, violento e misogino: le donne da cui è circondato sono a) brutte come il peccato, o perlomeno imbruttite (trovo che Milena Vukotić sia una donna molto bella); b) o miserande o volgari e aggressive come la signorina Silvani. Quindi, attraverso Fantozzi parla l’uomo medio italiano? Verrebbe, quasi, da dire di sì, ma non mi piace generalizzare. Certo che il piegarsi al potente di turno fa indubbiamente parte del carattere nazionale, fortunatamente riscattato, a volte, da momenti storici fulgidi.Si è parlato della cattiveria di Villaggio (come autore, non come persona, ovviamente). A parte che non capisco perché si debba essere per forza cattivi, dal momento che di cattiveria in giro per il mondo ce n’è sempre stata tanta, mi pare che la predetta cattiveria di chi ha inventato queste “maschere” sia, piuttosto che mefistofelica grandezza, una pesante biliosità. Sicuramente, Villaggio e i suoi personaggi hanno costituito un modello con cui guardare in tralice momenti e atteggiamenti della nostra storia. Ma no, non mi sento di parlare di grandezza.
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