I 50 anni dal maggio francese Da lì la stagione delle riforme


PRIMO PIANO • Il movimento che trasse spunto dall’opposizione alla guerra in Vietnam divide ancora oggi


di Francesco Agostino Poli 
Cinquanta anni ci separano dal 1968: nell’epoca della globalizzazione e di internet, un abisso storico. Eppure, assistiamo ad un riferimento costante a quell’anno, per lo più declinato in termini fortemente critici, quando non avversi: il ’68 come radice del rifiuto della cultura, delle competenze e del senso del limite. Colpevole, per alcuni, di aver dato il via ad una stagione culturale e politica che ha portato a fenomeni tra i più disparati, dal bullismo nei confronti degli insegnanti, al terrorismo, passando dalla messa in crisi della famiglia tradizionale. Per altri, si riscontra, nel ’68, il prevalere dell’individualismo narcisistico e dell’insofferenza nei confronti di ogni regola, atteggiamenti che, uniti all’antistatalismo, hanno condotto alla deregulation neoliberista, alla competitività come regola di lavoro, di vita, dello stare al mondo. 
Si trattò di un movimento di protesta che coinvolse settori del mondo operaio e giovanile, specialmente studentesco, negli Stati Uniti e in molti paesi europei. Nato nel contesto della protesta contro l’intervento americano in Vietnam, fece proprie istanze antiautoritarie ed egualitarie, rivendicando forme di democrazia diretta e di “partecipazione integrale” alla vita politica, che si concentrarono in una radicale critica delle istituzioni sociali (famiglia, scuola, lavoro), con una erosione sistematica e definitiva delle certezze religiose, morali, ideologiche, che avevano contraddistinto gli anni della ricostruzione post-bellica. Tra i punti più rivanti, il movimento che culminò nel cosiddetto maggio francese, e i fatti di Cecoslovacchia, dove la carica ribelle e destabilizzante del ’68 agì nel senso della contestazione antisovietica della Primavera di Praga. In Italia, il movimento del ’68 si misurò con le lotte del movimento operaio, giungendo ad intrecciarsi con l’autunno caldo del 1969. Come per tutti i momenti storici importanti, i giudizi sono variegati e non allineati tra loro. Quindi contano molto, in tali giudizi, le storie personali e la Weltanschauung di chi commenta. «Sicuramente il ’68 fu contro il modello dell’uomo a una dimensione». Padre dell’espressione era Herbert Marcuse, filosofo e sociologo tedesco, esponente di spicco della Scuola di Francoforte. Emigrato, a seguito del nazismo, negli Usa, fu autore di importanti studi filosofici, ma sua fama è legata allo scritto “L’uomo a una dimensione”, dove confluì una serrata teoria critica della società industriale avanzata, fondata sull’idea che la razionalità, fittizia e irrazionale, della società contemporanea ha la tendenza a negare e riassorbire, al proprio interno, qualsiasi opposizione. Una società della massima integrazione, in cui la cultura non opponeva più valori trascendenti e alternati- vi, e anzi convalidando la realtà, che deve essere sempre sottoposta a critica. L’“uomo a una dimensione” è l’uomo addestrato a ricoprire un posto nella vita, senza ribellarsi e senza prevedere alcunché di alternativo. Occorre allora appellarsi alla carica antiautoritaria ed eversiva degli esclusi (già Walter Benjamin aveva scritto: “E’ solo mercé i disperati che c’è data la speranza”). I giovani uomini e le giovani donne di allora si sentivano esclusi. Emergeva dalle letture, dalla musica, dal modo di stare insieme. Rifiutavano i modelli paterni e materni: il padre “breadwinner”, capofamiglia, la madre brava donna di casa, la famiglia chiusa e molecolare. Tutto questo andava ribaltato, così come le strutture culturali, sociali, politiche disegnate su quel modello. Tutto andava sottoposto a critica, in modo collettivo, discutendo, stando in assemblea, in collettivo. Una certa anarchia risiedeva nelle forme, spesso nuove, inusuali, inventate. Niente a che vedere, quindi, con il modello neoliberista che oggi permea le nostre società, fondato su un modello biopolitico che esige una iper-regolamentazione della vita quotidiana, un proliferare infinito di censure, divieti, diritti proprietari, allo scopo di porre fine al desiderio di autodeterminazione della soggettività politica che emerse proprio in quegli anni, nel ricondurre ogni esercizio di libertà alla dimensione privatistica dello scambio mercantile. Confesso che la dimensione antiautoritaria, il rifiuto del binomio “legge e ordine”, è quella che mi affascina di più: Marcuse, ma anche Wilhelm Reich e la liberazione sessuale, collegata alla liberazione da forme sociali oppressive: “la repressione sessuale è alla base della psicologia di massa di una ‘certa’ civiltà e precisamente di quella ‘patriarcale e autoritaria’, in tutte le sue forme”, e il pensiero femminista, radicalmente critico nei confronti del patriarcato, di Betty Friedan, di Shulamith Firestone, di Kate Millett: la storia dei movimenti di liberazione della donna merita, da sola, una biblioteca. E la stagione del pensiero francese di Jean-Paul Sartre e di Simone De Bauvoir, e ciò che ne sarebbe originato: gli studi di Deleuze, Guattari, Foucault. 
E cosa erano la società, la scuola, l’università italiane? Il ’68 degli studenti si lega all’autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di una conflittualità operaia che ha un’identità politica (salari e contratti) e generazionale (una nuova classe operaia entrata in fabbrica). Fu una specificità italiana l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969. 
Ragazze e ragazzi, uomini e donne si mossero verso la ricerca di nuove possibilità, in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratificazione sociale di partenza. Le strutture tradizionali non soddisfacevano le aspirazioni di tanti: si aprì un forte scarto tra la sfera della soggettività individuale e le forme di espressione e organizzazione della collettività, all’interno di una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. Si esprimeva un fortissimo bisogno di messa in discussione, di confronto, di dibattito. Di politica. 
Il ’68 è stato una stagione imprescindibile nella nostra modernità, nella modernità del mondo occidentale. In Italia, dal ’68 ebbe origine la stagione delle riforme che ci hanno reso un Paese civile: la legislazione sui diritti civili, sul nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori, la legge Basaglia che abolì i manicomi, il percorso verso la valorizzazione delle autonomie locali. E un sintomo della sua vitalità è proprio il fatto che, a distanza di cinquanta anni, il ’68 è ancora pietra di scandalo, la sua memoria non è pacificata, se ne dibatte e se ne discute. “Ce n’est qu’un debut continuons le com- bat”.

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