Te ricòordet? Quinta puntata del racconto “I figli del Villaggio Po” di Giorgio Barbieri
di Giorgio Barbieri
Ingurgitato il toast di Mario di corsa verso i giardini pubblici dopo essere passati davanti al Fulmine, il grande magazzino dei cremonesi. E lì non poteva mancare una capatina al bar Cremonese, dove oggi c’è una pizzeria, a guardare i risultati della serie A. Fuori dal locale, sulla strada, il titolare aveva messo una bacheca sulla quale venivano riportati i risultati delle partite di calcio della giornata.
L’ultima riga riguardava la Cremonese. Quel giorno sapevamo il risultato ma le altre domeniche, quando giocava fuori, era per noi una tappa obbligatoria. E lì c’era sempre un sacco di gente con la schedina del Totocalcio in mano per verificare se il sogno di un 13 o anche di un 12 si fosse avverato. Non vi dico quante schedine finivano strappate e arrotolate nel cestino della spazzatura a fianco del bar. Non ho mai visto nessuno esultare. Ma nemmeno sorridere. Io poi, che perdevo regolarmente figurine e palline, non ci ho mai provato, non avrei avuto alcuna possibilità. Si stava facendo sera e noi eravamo ancora in giro. A casa mia si mangiava alle sette e quindi dovevo rientrare per quell’ora. Non esistevano telefonini o altre diavolerie per tenere i contatti con i propri genitori. Noi non portavamo al braccio nemmeno gli orologi, per conoscere l’ora chiedevamo ai passanti. Si era insomma fatto tardi e allora abbiamo percorso il tragitto che dalla Galleria porta al viale Po a passo spedito, prima di salutarci davanti al Belsit e darci appuntamento al giorno dopo, alla prossima sfida di calcio nel campetto fra la Frazzi e le case. La Frazzi, questa enorme fornace che si estendeva sino alla campagna al fianco del cavo Morbasco dal 1875, era ormai prossima alla chiusura. Non c’erano più i trenini che portavano l’argilla da una parte all’altra dell’area, non c’erano più le centinaia di dipendenti. Era già in fase di smantellamento, che avvenne nel 1968. Noi passavamo interi pomeriggi a giocare sulle montagne di argilla rimaste: una scalata che sembrava la conquista dell’Everest e poi giù a capofitto sino a terra. A pagarne le conseguenze prima di tutto le gambe, con la pelle segnata da striature e lividi. E poi i pantaloni corti, spesso ridotti a brandelli e comunque talmente sporchi da non diventare più puliti. La nostra era una vita di strada. In casa io non avevo nemmeno la televisione e il frigorifero era una specie di bidone nel quale si metteva il ghiaccio per tenere al fresco gli alimenti. Il ghiaccio? Sì, perché ogni due giorni passava in strada un camioncino del Comune di Cremona che sul cassone aveva lunghe stecche di ghiaccio. Era inconfondibile il grido di ‘ghiaccio ghiaccio’ che l’addetto dalla strada urlava ai residenti. Mi ricordo che spesso andavo io a ritirarlo. Partivo da casa con un lungo strofinaccio in mano (spesso un lenzuolo rotto che non si usava più), oltrepassavo il portico e scalavo la salita sino al cancello. Mi mettevo in coda e mi affascinava vedere questo uomo rompere con uno scalpello le stecche di ghiaccio per dare alle persone la quantità desiderata. Costava poco e mi ricordo che con poche monetine mi staccava un mezzo metro di ghiaccio e me lo appoggiava allo strofinaccio. Il problema era poi riuscire a portarlo in casa nel minor tempo possibile, perché si scioglieva e lo strofinaccio bagnato diventava una specie di tortura. Chi dice che il ghiaccio è freddo? Le mie mani bruciavano come se avessi in mano una palla di fuoco. Aveva ragione Tony Dallara quando nel 1959 scrisse la canzone ‘Ghiaccio bollente’, un motivo che mio padre canticchiava spesso. Lui mi aveva insegnato tutte le canzoni di Natalino Otto e Flo Sandon’s e ascoltava estasiato le musiche di Gershwin. Per me buona musica ma antica.
(fine della quinta puntata, la sesta sarà pubblicata sabato 21 luglio)
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