Nucleare: il deposito unico? Tanti soldi per farlo all’estero

AMBIENTE • Marco Pezzoni in visita a Caorso: 8 miliardi per lo smantellamento. Una patata bollente


VANNI RAINERI 

La soluzione sul tanto atteso deposito nazionale dei rifiuti radioattivi può attendere. Anzi, non e nemmeno scontato che sarà individuato in Italia, e in ogni caso costerà molto caro, svariati miliardi di euro. L’onorevole Marco Pezzoni, esperto riconosciuto in materia di energia nucleare, ha visitato nei giorni scorsi la centrale nucleare di Caorso, ed ha potuto confrontarsi al suo interno con Marco Enrico Ricotti, presidente di Sogin, la società pubblica incaricata dello smaltimento dei rifiuti radioattivi che derivano non solo dalle centrali dismesse ma sono prodotti da attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare. 
Diverse le novità che ci riferisce, che partono dalla perdurante difficoltà della politica di individuare il sito unico nel quale stoccare per secoli le scorie radioattive, una scelta certamente impopolare. Un sito che ospiterà il deposito permanente delle scorie radioattive di bassa e media attività e quello temporaneo per le scorie ad alta radioattività.
«Gran parte delle scorie ad alta radioattività si trovano all’estero per essere riprocessate, specie tra Francia e Gran Bretagna, dove estraggono la parte di uranio riutilizzabile e residui di plutonio da usare nelle loro centrali nucleari attive. Entro il 2021 è previsto il ritorno in Italia». 
«Nel progetto originale di Sogin e dei governi italiani - prosegue Pezzoni - c’era l’idea di costruire il deposito permanente in Italia con accanto il parco tecnologico, e nel 2014 furono individuate le aree potenzialmente idonee, passate al vaglio dell’Ispra che aveva successivamente individuato le idonee». 

Da allora si attende inutilmente quell’elenco. Ovvio che le passate proteste di massa registrate a Scanzano Jonico e in Sardegna pesino sul timore di nuove reazioni popolari. 
«Certo. Da allora ad oggi non si è tentato di convincere ad accettare la presenza sul territorio del deposito permanente e di quello temporaneo pur in cambio di grandi incentivi economici. Una delle novità emerse è che, secondo le parole di Ricotti, si sta cercando di individuare nel mondo un sito “geologico” idoneo ad ospitare le scorie ad alta radioattività, in grado di reggere migliaia di anni ad intemperie, infiltrazioni d’acqua e altro; finora i tentativi fatti in Germania e in Usa sono falliti. I paesi europei stanno cercando di convincere il governo slovacco (una realtà con cui Enel collabora avendo lì centrali di vario tipo) ad ospitare il deposito permanente delle scorie a bassa e media attività, che dovrebbe durare dai 300 ai 350 anni, tramite pagamento di un enorme corrispettivo in denaro. E’ questo il motivo per cui dell’argomento non si parla più». 

Cerchiamo insomma di sbolognare in Europa la patata bollente. Altro che “ce lo chiede l’Europa”. 
«Un’altra cosa importante emersa è che i tempi dello smantellamento si prolungheranno per altri 10 anni, l’annuncio di Sogin parla oggi del 2036». 

Ma se le scorie pericolose rientreranno a Caorso tra due anni, vi dovranno restare? 
«Finché non si trova una soluzione, e se non si individua chi le prende prima di quella data, sì. Lo smantellamento complessivo è un’impresa molto complessa, in termini ingegneristici, tecnologici e di
sicurezza. E’ costosa, e dobbiamo pensare che nel mondo si stanno chiudendo 150 impianti a fronte della metà che si sta costruendo. Nel giro di un decennio le attuali 450 centrali diventeranno circa la metà. Quanto a Caorso, c’è un altro tipo di rifiuti: la quota maggioritaria è formata infatti da materiale in acciaio, ferro, cemento che deve subire un esame della radioattività: se è al di sotto di una certa soglia di sicurezza viene ricommercializzato da aziende private». 

E se supera la soglia? 
«Dovrebbe rientrare tra le scorie di bassa attività. Aggiungo che la Prefettura di Piacenza aveva stipulato 16 convenzioni con realtà istituzionali e associazioni produttive riguardo la parte reimmessa sul mercato, per evitare l’infiltrazione di interessi mafiosi. C’è anche la questione della sicurezza durante il trasporto, soprattutto verso l’estero dei materiali più pericolosi. Devo dire che sin qui Cremona, che pure è molto vicina a Caorso, si è dimostrata indifferente. Sogin prevede un piano interprovinciale di emergenza in vista dell’operazione più delicata, che sarà lo smantellamento, con veri e propri tagli, del cuore del reattore, là dove avveniva la fissione nucleare. Anche in quel caso servirà il controllo dei rischi da parte di autorità terze, mentre fin qui si è demandato tutto alla Sogin». 

La questione dei costi. 
«La spesa prevista per lo smantellamento è attorno agli 8 miliardi di euro solo per l’Italia, a carico del contribuente. Aggiungo il problema del non governo degli altri depositi nucleari prodotti dalla medicina e dall’industria, una produzione che non si ferma. Ricerche hanno mostrato come manchi un serio controllo di questi materiali, e come impianti italiani abbiano riutilizzato materiali ferrosi contaminati, stoccandoli nelle proprie imprese quando ci si è reso conto che erano radioattivi. Ce ne sono parecchi in Lombardia, soprattutto nelle province di Brescia e Milano. Non ne sono segnalati in provincia di Cremona». 

Il sito online di Sogin cerca di trasmettere un’idea di trasparenza. 
«E’ una trasparenza di facciata. Anche il parco tecnologico che affiancherà il deposito unico viene rappresentato in modo bucolico, con la gente che gira in bici e la natura che fiorisce: una grande narrazione». 

Ma l’Italia potrebbe dunque inviare all’estero tutte le scorie?
«Le direttive europee prevedono che le scorie rimangano nel paese che le produce attraverso il Deposito Nazionale, a meno che si tratti di uno stato che ha chiuso con l’esperienza nucleare e riesca a convincere un altro stato a prendersele, ovviamente pagando. Caorso d’altra parte fu convinta con la monetizzazione: ha avuto grandi risorse da investire». 

Oggi non credo basterebbe. 
«Non credo, ma trovo interessante l’aspetto psicologico. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensino oggi gli abitanti di Caorso». 

Considerato che le 4 centrali italiane hanno funzionato solo per pochi anni e i costi sia per la realizzazione che per il decommissioning sono elevati, non sarebbe stato più vantaggioso, una volta che il referendum ha bocciato il nucleare in Italia, non realizzarne altre ma lasciare almeno che queste concludessero il loro ciclo di produzione? 
«Dopo i referendum che seguirono lo schock di Chernobyl, si tentò di farle ripartire, ma qui ha giocato la debolezza della politica italiana. Il nucleare è simbolico della fine della Prima Repubblica, con lo scontro finale tra Dc e Psi. Furono Pci e Psi ad opporsi alle riaperture e all’apertura della centrale di Montalto di Castro. Per evitare il rovesciamento del governo, nel ’90 arrivò la delibera di chiusura definitiva. E pensare che fummo tra i primi a realizzare centrali nucleari, grazie alla nostra scuola e per la convinzione negli anni 50 dei nostri governanti di avere l’appoggio degli Stati Uniti, e di poter arrivare addirittura alla bomba atomica. Furono gli Usa a fermare la nostra corsa, una punizione che ci accomunò alla Germania per la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Alla Francia andò diversamente».



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