Quando gli italiani dissero no all’abolizione del divorzio

LA STORIA • Oggi l’anniversario del referendum del 1974, che fece registrare un’affluenza record dell’88% 


francesco agostino poli 

Ci sono alcune date che hanno cambiato il Paese, e una è certamente il 12 maggio 1974, con la vittoria del “no” al referendum per l’abolizione del divorzio in Italia. Era il primo referendum abrogativo della storia della Repubblica: i “no” prevalsero con quasi il 60%. Val la pena sottolineare la grande affluenza al voto, pari a cir- ca l’88%. 
La legge 898 “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” era in vigore dal 1970, ed è era meglio nota come “legge Fortuna-Baslini”, dal nome dei primi firmatari del progetto in sede parlamentare, il socialista Loris Fortuna e il liberale Antonio Baslini. L’introduzione del divorzio aveva causato controversie e opposizioni, in particolare da parte di molti cattolici, anche se non mancarono i “no” all’interno della stessa comunità cattolica, i quali sostenevano non tanto l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, un sacramento, ma la sua natura di istituto di diritto naturale. Il fronte divorzista motivava la sua battaglia nel senso di un ampliamento delle libertà civili, ma è indubbio che si prefigurasse anche uno spostamento a sinistra del quadro politico nazionale: alla vittoria del “no” nel 1974 seguiranno infatti importanti conquiste elettorali delle sinistre nel 1975 e nel 1976 e la formazione di governi con l’appoggio esterno del Pci prima nel 1976 epoi nel 1978. La campagna referendaria fu molto accesa: manifesti e slogan contrapposti, “La famiglia deve vincere, vota sì” e “Il mondo ci guarda, gli italiani votano no”. Democrazia Cristiana, Movimento Sociale Italiano e Comitati civici erano sostenitori del “sì” e “dell’integrità della famiglia”; dall’altra parte i promotori del “no” e della “libertà di scelta” (Pci, Psi, Partito radicale e associazioni laiche). La preoccupazione più grande dei partiti a favore dell’istituto era legata alla formula abrogativa: gli italiani avrebbero infatti potuto confondersi e votare “sì” pensando di contribuire alla causa del divorzio. Per questo motivo i manifesti dei “no” apparivano più semplici e meno evocativi, con l’utilizzo di parole come “libertà” e “scelta” accanto alla spiegazione del voto.
La legge che aveva introdotto il divorzio in Italia era stata approvata definitivamente dalla Camera il 1° dicembre del 1970 con 319 voti favorevoli e 286 contrari, al termine di una seduta conclusasi alle 5,40 del mattino con votazioni iniziate alle ore 10 del giorno precedente. Dirà con grande equilibrio la allora presidente della Camera Nilde Iotti nel 1987, quando fu approvata una modifica alla legge che ridusse da cinque a tre gli anni di separazione richiesti prima di poter accedere al divorzio: «Per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna, in ogni tempo, ma soprattutto direi, nel mondo di oggi, essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più il fondamento morale su cui si basa la vita familiare. Abbiamo dunque bisogno di ammettere la possibilità della separazione e dello scioglimento del matrimonio». 
E una corretta dichiarazione, di grande equilibrio, fu resa dal papa Paolo VI in occasione del voto, il quale, evitando appelli in contrasto con l’obbligo del silenzio elettorale, domenica 12 maggio disse, in occasione della preghiera coram populo: «Noi non romperemo ora il silenzio di questa giornata, destinata per gli Italiani alla riflessione decisiva, in rapporto con uno dei più gravi doveri per i credenti e per i cittadini, in ordine al bene della famiglia. Noi inviteremo soltanto a mettere questa espressa intenzione, implorante sapienza, nella nostra odierna preghiera alla Madonna».
L’esito del referendum fu una dura sconfitta personale per Amintore Fanfani, visto come il protagonista principale del fronte del “sì”: Fanfani, allora segretario della Dc, aveva cercato di sfruttare la campagna referendaria anche a fini prettamente politici, convinto che un’eventuale vittoria abrogazionista avrebbe frenato l’ascesa del Pci di Enrico Berlinguer. È rimasta famosa la vignetta satirica di Giorgio Forattini, dopo l’esito del voto referendario, pubblicata dal quotidiano “Paese Sera”, nella quale, ironizzando sulla bassa statura del leader Dc, faceva decollare il tappo con l’effigie di Fanfani da una bottiglia di champagne avente l’etichetta “no”. La cocente sconfitta – anche se conviene riportare quanto dichiarò successivamente Fanfani: «Non possiamo concedere che l’essere riusciti a far convergere sulle tesi sostenute ben tredici milioni di voti rappresenti una sconfitta» - rappresentò di fatto l’inizio della caduta politica del leader Dc, tra i più longevi protagonisti della vita politica del secondo dopoguerra: la successiva sconfitta democristiana alle elezioni amministrative del 1975 lo costringerà a lasciare la carica di segretario a Benigno Zaccagnini. Berlinguer, carismatico segretario del Pci, così commentò la vittoria del fronte divorzista: «È una grande vittoria della libertà, della ragione e del diritto, una vittoria dell’Italia che è cambiata e che vuole e può andare avanti». C’è però da dire che il Pci aveva avuto molti dubbi a schierarsi a favore della legge istitutiva, proprio per il timore di come avrebbero reagito le masse cattoliche. Come si è già detto, si aprirono contraddizioni laceranti anche all’interno della Chiesa, che aveva sospeso a divinis l’abate dom Franzoni, favorevole al mantenimento della legge. Quattro anni dopo, il 22 maggio 1978, il Parlamento approvò la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Ancora una volta, un Paese con forte radicamento cattolico era all’avanguardia nella codificazione della libertà di scelta, e la legge 194 fu ribadita dalla vittoria dei “no” in un referendum del 1981 che, similmente a quello del 1974, era stato voluto da chi intendeva abrogare la legge.
Ma il 12 maggio è un altro anniversario: quel giorno, nel 1977, in occasione di una grande manifestazione a Roma indetta dai Radicali per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio, vi furono incidenti, che portarono all’uccisione a Ponte Garibaldi della studentessa romana Giorgiana Masi in circostanze e con responsabilità mai del tutto chiarite. Giorgiana, 18 anni, venne colpita alla schiena da un proiettile calibro 22, all’incrocio tra Ponte Garibaldi e piazza Gioacchino Belli, mentre scappava verso Trastevere. Le ipotesi accreditate, seppur mai verificate, furono due: alcuni parlarono di “fuoco amico”, come sostenne l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, addossandone la responsabilità a frange del movimento dell’Autonomia, altri incolparono le forze dell’ordine in borghese nascoste tra i dimostranti. Giorgiana cadde, e fu scritta una poesia in sua memoria, che qui riportiamo:
“... se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio, se tu vivessi ancora, se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio, se la mia penna fosse un’arma vincente, se la mia paura esplodesse nelle piazze, coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola, se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza, se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita nella nostra morte almeno diventassero ghirlande della lotta di noi tutte donne se ... non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita ma la vita stessa, senza aggiungere altro” (le compagne femministe).



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