Superga e il Grande Torino: fine della favola, inizio del mito

LA STORIA • Il 4 maggio di 70 anni fa una tragedia colpì profondamente l’Italia da poco uscita dalla guerra 


francesco agostino poli 

Oggi 4 maggio, la Mole Antonelliana di Torino, il monumento simbolo più visibile della città, si illuminerà di color granata, per ricordare quel 4 maggio di settanta anni fa, quando un aereo con a bordo l’intera squadra del Grande Torino si schiantò contro un muraglione di contenimento della Basilica di Superga. Morirono tutti coloro che erano a bordo: trentuno persone. Tutta la squadra del Torino, che tornava dopo aver disputato a Lisbona una partita amichevole con il Benfica, a scopo benefico; i dirigenti della squadra, gli accompagnatori, i membri dell’equipaggio e tre giornalisti sportivi. Una tragedia che segnò a lungo il costume e l’immaginario del Paese, e che assestò un colpo durissimo al calcio italiano. La squadra Nazionale, infatti, era composta quasi esclusivamente da quel Torino, non a caso chiamato “grande”, dopo aver vinto cinque scudetti consecutivi, dalla stagione 1942-43 a quella 1948-49. Incredibili le storie di alcuni che non presero l’aereo fatale per puro caso: a partire da Niccolò Carosio, che aveva la cresima del figlio, a Vittorio Pozzo, celebre ex commissario tecnico della Nazionale, a Tommaso Maestrelli, che non riuscì a rinnovare in tempo il passaporto. Il Torino fu proclamato vincitore del campionato a tavolino e gli avversari di turno, così come lo stesso Torino, schierarono le formazioni giovanili nelle restanti quattro partite. Quasi un milione di persone partecipò ai funerali, e lo shock fu tale che l’anno seguente la nazionale si recò ai Mondiali in Brasile viaggiando in nave. Ma come poté accadere? L’aereo trovò in Italia un tempo pessimo: nubi quasi a contatto col suolo, rovesci di pioggia, forti raffiche di vento, visibilità orizzontale scarsissima. Il fatto è che l’aereo si schiantò contro il terrapieno posteriore della basilica di Superga. Si ipotizzò un guasto all’altimetro, o una raffica fortissima, che spostò l’aereo verso la basilica. Scomparve così la squadra di Valentino Mazzola, Loik, Gabetto, Ossola, Castigliano (che colpiva di tacco una monetina e se la infilava nel taschino), Maroso, Menti, Bacigalupo e tantissimi altri campioni. Molte vittime erano irriconoscibili, e toccò proprio a Vittorio Pozzo il triste compito dell’identificazione. Non bisogna dimenticare che erano gli anni del secondo dopo-guerra, e che l’Italia, uscita dal conflitto nazifascista in macerie, aveva bisogno di miti positivi, per dimenticare le bombe, la fame, la disoccupazione. La squadra fu costruita da Ferruccio Novo, il presidente, uomo con notevoli contatti italiani e internazionali, da Ernest Egri Erbstein, quest’ultimo in mezzo a mille peripezie (di religione ebraica, fu allontanato dalla Lucchese, dove allenava, a causa delle leggi razziali fasciste del 1938 e si salvò dalla deportazione), e soprattutto da Vittorio Pozzo, grandissimo allenatore, vincitore di due titoli mondiali, un genio calcistico. E quest’anno cade anche il centenario della nascita del capitano, Valentino Mazzola, i cui figli seguiranno la carriera del padre, con grande successo, soprattutto, di Sandro. Valentino era chiamato il Tulen, “barattolo”: fin da bambino, si allenava prendendo a calci una latta di conserva vuota. Destro e sinistro, collo, interno ed esterno. Fu ingaggiato dal Torino: un vero uomo squadra, un giocatore universale, che faceva gol di destro, di sinistro, di testa. Gli eroi son tutti giovani e belli, canta Guccini. E così era Mazzola, che, si dice, avesse paura di volare: quasi un presagio. Eroi popolari di una squadra che godeva del tifo popolare, diversa in questo dalla Juventus, non a caso “la vecchia signora”. E non scalfisce il suo mito neppure una certa sua tribolata vita familiare, forse una bigamia. Gli eroi questo sono, servono a far sognare. Grazie Valentino, grazie Grande Torino.



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