“Mi sono fatto persuaso” Un ricordo di Camilleri

PERSONAGGI • Disse: «Provo profondo disagio davanti a chi crede di avere solo certezze assolute» 


francesco agostino poli 
Per descrivere la figura di Andrea Camilleri, il grande scrittore recentemente scomparso, “padre” del commissario Montalbano, ma non solo, mi piace riportare queste poche righe, tratte da un discorso che tenne in onore di un altro grande anziano, Pietro Ingrao: «Personalmente, provo profondo disagio davanti a chi crede di avere in sé solo certezze assolute. Ai miei occhi, appare come un arroccarsi in una immobilità che nega il movimento. Le certezze assolute, a mio avviso, attengono alla fede, non all’esercizio della ragione che è tutto un cercare, un tentare, un interrogare, un dubitare su se stessi e gli altri. E poi siamo così sicuri che chi non dubita mai lo faccia perché inglobato nella sfericità di una sua verità o perché invece l’esercizio del dubbio, in sé estremamente impegnativo e problematico, può sfociare in una revisione che non potrebbe apparire come una contraddizione? Contraddirsi, a molti, sembra espressione di malferma personalità e invece così non è, è tutto l’opposto». 
Questa è stata la cifra della scrittura e dell’impegno di Camilleri: una ricerca costante, un non voler cedere alle verità assolute e trancianti, alle parole preconfezionate, alla viltà del pensare. Camilleri, classe 1925, ha attraversato il Novecento e questa prima parte del millennio, da testimone lucido ed appassionato. Sono molti gli elementi degni di nota nella sua opera, ma vorrei sottolineare per primo quello della lingua, della ricerca linguistica che lo ha contraddistinto. Confesserò che, pur amando la varietà dei dialetti e dei sistemi-lingua, che portano con sé usi, costumi e culture diversi, che non possono che arricchirsi contaminandosi a vicenda, non ho mai amato più di tanto la letteratura dialettale. So di sbagliare, poiché ci sono esempi di alto valore quali Carlo Porta, Carlo Emilio Gadda, lo stesso Gioacchino Belli. Camilleri però, come lo stesso Gadda, usa la spinta del dialetto siciliano per creare una lingua. Lo stesso scrittore ha più volte precisato che non si tratta, nel suo caso, di trascrivere semplicemente dal dialetto: egli compie un’operazione filologicamente complessa che riguarda il recupero non solo di elementi lessicali, ma di sostanze del significato che, altrimenti, non sarebbero esprimibili o non sarebbero esprimibili con la complessa densità di significato che, antropologicamente parlando, un lemma dialettale porta con sé. D’altronde, chi ama la lingua sa che quest’ultima non è mai statica, mai fissata una volta per tutte. Solo le lingue cosiddette “morte” lo rimangono. Cosa rende viva una lingua è la comunità dei parlanti: è l’uso, è la mescolanza, è la contaminazione. Camilleri né è stato un maestro. Questo che segue è solo un esempio: “[...] oggi come oggi nisciuna pausa può essere concessa in questa sempre più delirante corsa che si nutre di verbi all’infinito: nascere, mangiare, studiare, scopare, produrre, zappingare, accattare, vendere, cacare e morire” (da L’odore della notte), dove “accattare” non è usato nel senso de gesto dell’accattone, ma è il siciliano “comprare”. Per soprammercato, lo scrittore ci inserisce il neologismo “zappingare”, calco dall’inglese. 
Ha scritto a questo proposito Lorenzo Pavolini, che più volte lo ha intervistato per Radio3: “ Tutto il suo immaginario si è costruito alla radio, sulla sua dimensione orale [...]. Il suo lavoro alla radio tra gli anni Sessanta e Settanta è stato fondamentale. Fu tra i primi a registrare in esterna dei radiodrammi. Tra il 1974 e il 1975 fu regista dello storico programma “Le interviste impossibili”, ma in particolare fu autore e in questa veste realizzò il documentario sperimentale “Outis Topos”, registrato tra le case e gli abitanti del quartiere Barriera di Torino, dove la Rai si piazzò con i suoi registratori e consentì alla popolazione del quartiere di auto-raccontarsi. Fu in quel contesto che Andrea Camilleri ascoltò, e a lungo, tantissimi operai di origine meridionale e sono certo che da lì lui trasse quell’impasto linguistico e la lingua reinventata che avrebbe reso celebre nei suoi romanzi successivi”. 
Nel giugno 2018, a quasi novantatré anni e dopo quasi quarant’anni di assenza dalla scena, ormai cieco, Camilleri era tornato in teatro, recitando un monologo su Tiresia scritto da lui stesso. Un modo per chiudere e riaprire il cerchio della sua vita artistica e letteraria che proprio in teatro era iniziata nel 1947. Con alcuni tratti distintivi: la “verità” non è mai in bianco o in nero, i “buoni” non è detto che siano sempre completamente buoni, e la stessa cosa dicasi per i “cattivi”. Negli stessi romanzi con Montalbano, interessa il giusto sapere intorno a quali polsi scattano le manette, alla fine: interessa la psicologia dei personaggi, la complessità della narrazione, l’investigare in sé. E dobbiamo ricordare anche il lucido e generoso impegno civile e politico, che lo scrittore non ha mai sentito disgiunto dalla sua attività letteraria. Camilleri era un intellettuale capace di prendere posizioni nette senza guardare in faccia nessuno, né il potente di turno né i propri lettori. Della sua fine diceva: «Se potessi vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio “cunto”, passare tra il pubblico con la coppola in mano». Non è stato proprio così, ma ha raccontato le sue storie a lungo.

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