«Il cambiamento climatico è una realtà»

Ambiente - Andrea Dall'Aglio : «Possiamo ancora fare qualcosa: frenare i disboscamenti, investire in energia pulita, tagliare le emissioni di gas serra»

Federico Pani 
Ci sono fatti, come la piena del Po appena passata, che è sempre meglio non accadano. Ma una volta successi danno almeno l’occasione di fare qualche considerazione in più. Per esempio, che forse solo chi passa da un campo da golf a un altro, come fa il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, potrà continuare a credere che il cambiamento climatico è una favola raccontata da ambientalisti e politici di sinistra. In realtà, gli ammonimenti non arrivano solo da sparute minoranze, ma anche dalla comunità scientifica: un grado di correlazione tra i nostri comportamenti e il cambiamento climatico in atto c’è. Abbiamo chiesto allo scienziato naturale Andrea Dall’Aglio, che si occupa come docente di questi argomenti, di aiutarci a delineare un quadro della situazione, indicando anche le precise responsabilità dell’uomo. 
«Il cambiamento climatico è una realtà e sta già provocando impatti e fenomeni di frequenza e intensità mai visti nella storia umana: sofferenze, catastrofi, sconvolgimento degli ecosistemi e della ricchezza di biodiversità. I cambiamenti climatici sono la diretta conseguenza del riscaldamento globale. La scoperta del fenomeno risale alla fine del XIX secolo, quando Svante Arrhenius, premio Nobel per la chimica nel 1903, dimostrò che l’anidride carbonica avrebbe avuto un’incidenza sul clima. Nella prima metà del XX secolo la concentrazione cominciò a subire un incremento inaudito dovuto all’uso sempre più intenso dei combustibili fossili. Si credeva allora però che gli oceani sarebbero riusciti nell’impresa di mantenere costante il livello di CO2 in atmosfera, assorbendo le emissioni antropogeniche. Un’illusione. Si aggiunse poi una nuova, inquietante scoperta: che a causare il riscaldamento globale erano anche altri gas come il metano, l’ossido di diazoto e l’ozono, a cui vanno aggiunti anche i CFC, ossia clorofluorocarburi, principali responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono». 
Quali saranno gli effetti più vistosi causati dall’effetto serra indotto dall’uomo?
«Vorrei precisare che l’effetto serra, di per sé, non è un male: è il fenomeno per cui l’atmosfera terrestre intrappola parte della radiazione solare che torna indietro nello Spazio dopo che ha riscaldato la superficie del pianeta. Se non ci fosse, la temperatura della nostra terra sarebbe di 30 gradi più fredda. Il problema è l’aumento dell’intensità del fenomeno: gli ultimi 4 anni (2015- 2018) sono stati, quanto a temperature medie, i più caldi di sempre. Una delle conseguenze più dirette è lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari e le conseguenti inondazioni. Non solo: l’aumento delle temperature significa un aumento della frequenza di fenomeni atmosferici anomali come uragani e tempeste, così come la desertificazione di molte aree e, quindi, siccità e carestie». 
Possiamo ancora fare qualcosa?
«Sì. Innanzitutto, bisogna frenare i disboscamenti: più piante aiuterebbero a trattenere la CO2 che proprio non si può non produrre e, in certi casi, a mitigare il clima. Ma occorre investire anche in energia pulita come quella del Sole, del vento e delle onde e, naturalmente, tagliare le emissioni di gas serra. Negli ultimi giorni, la Commissione Europea ha presentato una strategia a lungo termine che punta a ridurre a zero le emissioni nette (e far sì, quindi, che la quantità di inquinanti emessi sia uguale alla quantità assorbita). Un obiettivo importante ma per ora che resta sulla carta. Per tutti è chiaro che bisognerà provare a mantenersi nel più basso dei due scenari prospettati dagli Accordi sul Clima di Parigi (COP21), cioè di restare “ben al di sotto dei 2°C” rispetto alle temperature precedenti la Rivoluzione industriale, e perciò possibilmente “al di sotto dei + 1,5°”. Purtroppo però nemmeno il secondo limite è stato posto come vincolante. E gli scienziati sono d’accordo nel dire che un rialzo superiore al grado e mezzo renderebbe le conseguenze per il pianeta impossibili da gestire. Di questi argomenti si sta discutendo nel corso della COP24, la conferenza sul clima che sarà in corso fino al 14 dicembre a Katowice, in Polonia, la quale dovrebbe definire le regole per mettere in pratica e finanziare quanto proposto negli Accordi di Parigi».




Consorzio Bonifica Navarolo  «l’Oglio Po e’ una Piccola Olanda» il guaio dei tanti centri gestionali 

Calàti juncu ca passa la china, calati giunco perché passa la piena, ma provate voi a dirlo a chi ha patito i disagi della piena del Po e a tutti gli operatori, dalla polizia ai vigili del fuoco, che hanno dovuto affrontare l’emergenza appena passata. Tra gli operatori presenti ci sono stati anche gli addetti del Consorzio di Bonifica Navarolo, responsabili della sicurezza idraulica, della gestione delle acque a scopo agricolo del comprensorio dell’Oglio Po, a cavallo tra le province di Mantova e Cremona, che va da Motta Baluffi a Viadana.
Il direttore generale Marco Ferraresi ci ha spiegato che effettivamente stiamo davvero assistendo a fenomeni inusitati: «Il territorio di cui ci occupiamo è diventato  sempre più soggetto a bombe d’acqua: penso per esempio a quella che ha colpito non molto tempo fa San Giovanni in Croce. La pluviometria ci segnala non tanto un aumento della quantità di pioggia caduta nel corso dell’anno, quanto quello della sua concentrazione in pochissimo tempo. Del resto, anche il territorio è cambiato:
l’urbanizzazione ha largamente ampliato le zone impermeabili e ridotto la capacità di assorbimento dell’acqua del terreno (anche per carenza di alberi). La rete di consorzi di bonifica venne realizzata alla fine dell’Ottocento ed è chiaro che, nonostante le modifiche, la struttura sarebbe da ridimensionare». Ferraresi definisce la zona dell’Oglio Po «una piccola Olanda, almeno in certi periodi dell’anno». «Per circa 80-100 giorni all’anno, le nostre pompe sono impiegate per evitare che le acque dei canali vengano ributtate indietro dai fiumi, il cui pelo dell’acqua ha un’altezza superiore a quella del reticolo idrografico di cui ci occupiamo. D’estate, invece, abbiamo il problema opposto: prelevare acqua dai fiumi per combattere la siccità».
La piena del Po appena trascorsa ha dunque rischiato di rendere obsoleto il nostro argine maestro come unica e ultima difesa dalle inondazioni? «Premetto che il consorzio non si occupa direttamente di questo, ma l’argine funge ancora bene da barriera (un problema, curiosamente, lo danno le tane degli animali come le nutrie, le volpi e i tassi). Sicuramente, per evitare ulteriori allagamenti, andrebbe migliorato l’aspetto della pulizia dei canali privati, spesso lasciati all’incuria. La sfida futura che ci riguarda invece più da vicino sarà lo sgravio dai problemi legati alla gestione delle acque meteoriche: è chiaro ormai che le nostre strutture non sono più adeguate per gestirlo. Dovremo lavorare, quindi, in sinergia con i gestori delle reti fognarie per ovviare al problema. Non è solo una questione legata alla gestione delle acque, ma al benessere complessivo del nostro territorio». 
Ecco, proprio il benessere complessivo del territorio sembra minato invece da un’intricata rete di regole ed enti, competenze e interessi divergenti. Un complesso di uffici e norme (in Italia sono 3.600 gli enti che si occupano di contrasto al dissesto idrogeologico) che tracciano confini sulla carta di cui, come si è visto, l’acqua non tiene conto. Da una parte c’è l’autorità centrale, cioè il ministero dell’Ambiente, quello dell’Agricoltura e le Infrastrutture; dall’altra, una pletora di commissari regionali, titolari di Parchi, magistrati delle acque, Protezione Civile, Demanio, ministero dell’Interno e chi più ne ha, più ne metta. Non è in fondo il Po, invece, la grande arteria di un unico sistema idrogeologico che va da Cuneo a Ferrara, dalle Alpi agli Appennini? La natura sembra ricordarsi che l’ambiente è uno solo, l’uomo no. 

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