Il rifiuto della disperazione è un obbligo


L’INTERVISTA • Sesso, amore e morte negli “Angels” di Kushner rievocati da Bruni e De Capitani

Vittorio Dotti - Caterina Madda
E’ una mesta notte autunnale quella in cui incontriamo, reduci dalla maratona di sette ore d’azione teatrale, Cristina Crippa, il marito Elio De Capitani e il cofondatore dell’Elfo, l’amico carissimo Ferdinando Bruni – in una parola: i tre più grandi attori e registi del Teatro d’Arte contemporaneo, in Italia e forse anche in Europa. Li ringraziamo di questo dono, se ancora intrisi del fervore scenico, dedicano a noi – e ai lettori de Il Piccolo – le stille del loro cuore e della loro mente, per discorrere intorno all’opera del geniale autore di Broadway, pluripremiato per questo lavoro teatrale, Tony Kushner. Aggrediamo l’argomento chiedendo a Ferdinando d’illustrarci, in sintesi, i temi salienti del complesso lavoro di Kushner. Il coregista risponde: 
«La scrittura di Kushner e il respiro del testo erano piuttosto eccezionali per gli anni ’90, un periodo in cui il teatro anglosassone, e a ruota quello italiano, riuscivano a parlare della realtà contemporanea solo attraverso un minimalismo paracinematografico, anzi, in realtà, sarebbe meglio dire, televisivo. Il tentativo, a nostro avviso riuscito, di scardinare queste forme, di aprire il quotidiano all’epico e al visionario era uno dei maggiori motivi della fascinazione operata da questo testo. Quando decidemmo di portare sulla scena italiana Angels in America, i dubbi riguardavano la condivisibilità dei temi trattati da parte del pubblico italiano; e questo non tanto in rapporto al discorso sull’Aids, tragicamente presente anche da noi, bensì in riferimento alla mitografia politica e iconica, strettamente statunitense, cui il testo fa riferimento. Poi c’è stato l’11 settembre. Il mondo è diventato improvvisamente più brutto, più pericoloso, ma anche, e stranamente, più piccolo. E’ diventato tragicamente, e a volte brutalmente, arrogantemente chiaro che tutto ciò che riguarda gli Stati Uniti ci coinvolge molto da vicino, che l’espressione “periferia dell’impero” non è un luogo comune, ma una realtà con cui fare i conti. Angels in America ha smesso di essere un testo affascinante ma remoto, per diventare lo specchio di una vicenda che stride nella mostra carne». 
Grazie, caro Ferdinando. Ora domandiamo a De Capitani di leggere per noi alcune citazioni, trascelte dalle interviste che Tony Kushner aveva rilasciato alla stampa americana ed europea. Elio si schiarisce la voce, mentre la bella Ardea, sua assistente e nostra amica, pone il leggio innanzi al Maestro che, attoriale ma mai enfatico, sciorina la Weltanschauung d’uno dei maggiori autori teatrali contemporanei. «Niente è perduto per sempre. In questo mondo c’è una specie di doloroso progresso (Elio sapientemente accentua questo accenno di pena, che prelude a un’immagine che Kushner crediamo abbia ripreso dalla lirica Candele del poeta neogreco Kavafis). Nostalgia per quello che abbiamo lasciato dietro di noi e sogno del futuro (che Elio dipinge con la mano). // Penso il mondo politicamente: per me la politica è interessante, sexy, divertente (e qui, come non pensare al motto di Denis Diderot: “Toglietemi la politica e la morale, e non saprò più di cosa parlare”?) // Scrivo per dire la verità sul modo in cui vedo e capisco il mondo. Non mi interessa mascherare nulla. Se poi risulto spiacevole, meglio così. Un certo disagio è la prova che un’opera d’arte funziona. Non assistiamo a Medea per sentirci meglio. // Può sembrare un paradosso, ma non lo è: l’America di George W. Bush realizza tutte le promesse di quella di Reagan. Insomma, l’America di Katrina, che è poi il paese che Reagan aveva promesso: un luogo senza rete sociale, dove se hai i soldi ti salvi e se non li hai crepi sepolto dal fango. // La mia sensibilità politica è modellata sulla tradizione ebraica (qui Elio assume una postura pugnace e recita quanto segue con attitudine di sfida): i miei genitori mi hanno sempre insegnato a ribellarmi al pregiudizio, a non avere paura di essere minoranza. La mia idea di pluralismo democratico americano si è formata lì, sulla necessità di salvaguardare le minoranze e di vivere secondo una legge di giustizia morale (!!! De Capitani invessilla quest’asserto con la tensione di tutto il corpo e con la febbre dello sguardo). // All’inizio Angels in America doveva essere una riflessione sulla mia identità gay. Scrivendolo, è diventato qualcos’altro. // Non c’è abbastanza rabbia per tutto ciò che mi fa arrabbiare (quant’è vero!, e quanto tragica è la conseguenza psicosomatica di questa ’inibizione del sintomo’ che – freudianamente parlando – genera l’angoscia). // (Espresso da Elio con lenta, modulata voce di persuasione e d’intelligenza:) Penso si debba chiedere al teatro di fare cose impossibili, come far volare un angelo, lanciare un libro infiammato, materializzare i sogni e girare il mondo. (E ancora, asseverato da un climax tonante del baritonale Magister De Capitani:) Il rifiuto della disperazione è un obbligo!!!» L’avvenente Ardea toglie dalla scena il leggio, Elio s’inchina al pubblico che lo abbraccia con un affettuoso applauso; mentre noi ci rivolgiamo a Cristina, e seguendo l’idea di Caterina, secondo cui l’unica via di fuga dall’orrore del mondo sia l’Amore, le chiediamo di recitare per noi – a memoria, senza leggio: la bella Cristina non ne ha bisogno – due liriche composte dalla sacerdotessa dell’amore carnale, la grande Alda Merini. Non meno grande di lei, iniziando con un flautato che via via assurge a tono sublime, Cristina ci incanta con queste parole: «Amare è rischiare di essere rifiutati. / Vivere è rischiare di morire. / Sperare è rischiare di essere delusi. / Provare è rischiare di fallire. / Rischiare è una necessità. / Solo chi ora rischia è veramente libero» A questo punto si compie un ’improvvisazione , quando Elio suggerisce a Vittorio di chiedergli di recitare l’incipit del capolavoro di Otavio Paz, La dialettica della solitudine. Ed è con tono quasi omeletico che il grande Elio principia a officiare il rito dell’Amore: «Tutti gli uomini sono soli. La solitudine è il fondo ultimo della condizione umana. (…) L’uomo è nostalgia e ricerca di comunione. L’amore è l’esempio lampante di quel duplice istinto che ci induce a scavare e ad affondare in noi stessi, e, contemporaneamente, ad uscire da noi e a realizzarci nell’altro: morte e ricreazione, solitudine e comunione (Elio ce lo trasmette, e con la voce, e col corpo). Per realizzarsi, l’amore deve infrangere le leggi del mondo, dove l’amore è scandalo e disordine, trasgressione (qui Elio sembra innalzarsi, corpo danzante, nel cielo): quella di due astri che rompono la fatalità delle loro orbite e si incontrano a metà dello spazio.» Grandioso affresco dell’inattuabilità dell’amore e dunque dell’ineluttabilità della disperazione a cui sembrerebbe destinato l’uomo, questo asserto di Paz è smentito dal sorriso complice che la bella Cristina e la non meno avvenente Caterina si scambiano in scena, decidendo di concludere l’intervista/ performance con la dimostrazione che l’unico medium umanamente plausibile per ottemperare il mandato di Kushner (ovvero ricusare la disperazione) è l’amore convissuto con l’anima e con il corpo. Caterina quasi cantando, Cristina con pregnanza salmodiante, uniscono le loro voci incantevoli, e recitano per noi la preghiera del vero (!) amore, non di quello melenso e vilmente spirituale: «E poi fate l’amore. / Niente sesso, solo amore. / E con questo intendo / i baci lenti sulla bocca, / sul collo, / sulla pancia, / sulla schiena, / i morsi sulle labbra, / le mani intrecciate / e occhi dentro occhi. / Intendo abbracci talmente stretti / da diventare una cosa sola, / corpi incastrati e anime in collisione, / carezze sui graffi, / vestiti tolti insieme alle paure, / baci sulle debolezze, / sui segni di una vita / che fino a quel momento era stata sbiadita. / Intendo dita sui corpi, / creare costellazioni, / inalare profumi, / colori che battono insieme, / respiri che viaggiano / allo stesso ritmo. / E poi sorrisi, / sinceri dopo un po’ / che non lo erano più. / Ecco, / fate l’amore e non vergognatevi, / perché l’amore è arte, / e voi i capolavori.» Lieve sovrapponendosi all’ultima frase di Merini, ma con l’incanto del preternaturale ammantata, la voce del poeta Ovidio (interpretata fuori scena dal grande Ferdinando) ruscella come una cascata d’ambrosia magica dal fulcro ideale della scena, sapientemente orchestrata da Carlo Sala (scenografo) e da Nando Frigerio (artista delle luci) con l’ausilio video di Francesco Frongia e i costumi ideati dallo stesso Ferdinando Bruni, dove al pubblico allibito appare – angel ex machina – il sublime aedo di Sulmona, che invita tutte le donne e gli uomini, etero-gay-lesbiche-prostitute-papponi... in una parola, tutti gli “uomini di buona voluttà” (sic!) a congiungersi in un affettuoso e lascivo abbraccio orgasmico, officiando insieme a lui: OMNIA VINCIT AMOR, ET NOS CEDAMUS AMORIS!!! Spettacolare chiusa pirotecnica, sovrastata dall’applauso crosciante che meritatamente suggella questa performance/ intervista

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