18/12/1976 • Il doppio azzurro giocò la finale di Coppa Davis con un’inedita maglia rossa per protestare contro la dittatura in Cile
Fabio Varesi
Per raccontare questa storia, che probabilmente le nuove generazioni non conoscono, è indispensabile contestualizzare il periodo nel quale si svolsero i fatti. Siano a metà degli anni ’70, in piena Guerra Fredda, mentre in Italia il terrorismo si è fatto sempre più sanguinario. Con la Nazionale di calcio azzurra che tentava la ricostruzione dopo il disastro ai Mondiali del 1974, molti sportivi italiani si erano appassionati al tennis, grazie a un campione come Adriano Panatta, condottiero di una formidabile squadra di Coppa Davis. In quel 1976, Panatta ha vinto a Roma e soprattutto a Parigi ed è diventato uno dei primi giocatori del mondo e in quell’anno ha trascinato gli azzurri alla finale di Coppa Davis, eliminando prima la Svezia (priva di Borg), poi la Gran Bretagna e la fortissima Australia di Newcombe e Alexander. Avversario nell’atto conclusivo per vincere l’insalatiera è il sorprendente Cile, che ha usufruito della rinuncia dell’Unione Sovietica in semifinale. Motivo? In quegli anni non poteva che essere politico. La nazione simbolo del socialismo non poteva tollerare la dittatura di destra di Pinochet, che con un colpo di stato aveva destituito il socialista Allende nel settembre del 1973 e che senza scrupoli si era sbarazzata dei contestatori del regime. A pochi giorni dal dramma del popolo cileno, un sorteggio beffardo aveva messo di fronte proprio Urss e Cile nello spareggio per i Mondiali di calcio del 1974. I sovietici accettarono di giocare la partita d’andata a Mosca (senza immagini televisive), ma rifiutarono di recarsi a Santiago per giocare nello stadio che le cronache indicavano come luogo di tortura e massacro dei contestatori di Pinochet. Mosca chiese di giocare in campo neutro – scelta più logica – ma la Fifa fu irremovibile e dopo un sopralluogo non troppo minuzioso, diede il via libera alla partita, che non si giocò mai. Con un telegramma, l’Urss confermò il suo forfait e Pinochet pretese che la squadra cilena scendesse comunque in campo e inscenasse un’azione con tanto di gol del capitano Valdes. Una farsa. Coerente con quella scelta politica e soprattutto ideologica, i sovietici confermarono il forfait anche tre anni dopo in campo tennistico, dando via libera al Cile. Per l’Italia si trattava di un’occasione unica per vincere la prima Coppa Davis della sua storia, ma qualche settimana prima della partenza, si creò un acceso dibattito sull’opportunità o meno di volare a Santiago. Naturalmente il Partito Comunista era contrario alla trasferta ed anche il Governo Andreotti non vedeva di buon occhio la partecipazione alla finale. Chi era contrario, riteneva che non presentarsi avrebbe dato un segnale forte al mondo del dissenso italiano al regime di Pinochet, mente i favorevoli affermavano che lasciare la vittoria al Cile significava consegnare al dittatore uno strumento di propaganda grazie a un successo sportivo, sebbene ottenuto a tavolino. Nelle settimane precedenti alla finale, le polemiche non si placarono, ma alla fine fu lasciata libertà di scelta alla Federazione di tennis, che su pressione del capitano Pietrangeli, diede il via libera alla partenza. Sulla carta gli azzurri erano favoritissimi, ma visto il contesto in cui si svolgeva l’evento e la scia di polemiche che ne erano susseguite, il rischio era che i giocatori italiani fossero poco concentrati. Appuntamento a Santiago dal 17 al 19 dicembre 1976 e il primo giorno Adriano Panatta e Corrado Barazzutti fecero il loro dovere, battendo agevolmente i loro avversari. Per alzare la prestigiosa insalatiera, bastava un solo punto, da conquistare nel doppio, tra l’altro punto di forza degli azzurri. E qui veniamo all’episodio centrale di quella trasferta, che in pochi conoscono, perché la stampa italiana dell’epoca diede poco risalto all’accaduto. Così Panatta
raccontò la sua scelta di giocare il 18 dicembre insieme a Paolo Bertolucci con un’inedita maglia rossa: «Il rosso era il colore dell’opposizione a Pinochet, il colore che le donne portavano nelle piazze, il colore della protesta, del coraggio e del sangue. Donne i cui figli, fratelli, padri o mariti erano stati torturati, uccisi, cancellati. Era semplicemente un segnale, volevo testimoniare in qualche modo la mia vicinanza e la mia solidarietà al popolo cileno. Io e Paolo decidemmo di farlo e basta. Se la stampa se ne accorse e non lo scrisse è molto grave, se non lo capì è stato anche peggio». Una protesta silenziosa, ma significativa, che dimostrò la sensibilità di giocatori che sapevano quanto soffrisse il popolo cileno, malgrado fossero lì per giocare a tennis. In Italia, forse perché le immagini erano ancora in bianco e nero, ma anche per la scelta politica di non mandare in onda l’evento in diretta (ma in registrata sulla prima rete, dopo il rifiuto del secondo canale), questo gesto simbolico, ma che meritava di essere segnalato, passò sotto traccia ed anche i giornali non lo enfatizzarono. Qualcuno probabilmente non ne colse il significato e chi lo capì, forse preferì non alimentare le polemiche. Ma a distanza di 43 anni, è giusto ricordare che quella Nazionale di tennis era formata da uomini veri, con una coscienza civile e non solo da sportivi che pensavano soltanto ai premi in denaro, come qualcuno li etichettò, per criticare la scelta di giocare quella finale. Per la cronaca, il doppio azzurro vinse in quattro set e durante il riposo (previsto dopo il terzo set), Panatta e Bertolucci decisero di cambiarsi e di indossare una maglia blu, con la quale avrebbero potuto festeggiare il successo e così avvenne. Di quella squadra faceva parte anche Tonino Zugarelli, una riserva preziosa, perché efficace sui campi in erba. Da allora, l’Italia non ha più vinto la Coppa Davis, a conferma che quell’occasione non doveva essere sprecata, anche perché non era giusto che la politica entrasse in modo così ingombrante nello sport, come purtroppo avvenne negli anni ’80 con i due boicottaggi olimpici delle super potenze Urss e Usa. Come sembrano lontani quei tempi, ma è giusto ricordarli, come monito per il futuro.
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