Emergenza sanità, autonomia alla prova

CORONAVIRUS • Continue schermaglie tra governo centrale e regioni, accuse reciproche e difesa delle proprie decisioni

Vanni Raineri

L’impressione è che l’emergenza Coronavirus rappresenti una piattaforma per mettere alla prova le autonomie. Il fatto che impatti sulla sanità, il settore più regionalizzato, serve per aprire la discussione sulla tenuta dei sistemi decentrati, e qui si sta giocando una partita importante per il futuro, anche se non in modo scoperto, in quanto affermarlo apertamente in questo momento drammatico risulterebbe cinico.
Ma basta osservare quanto sta avvenendo: dalle regioni più colpite, Lombardia e Veneto (amministrate dal centrodestra), partono stilettate contro il governo di centrosinistra (c’è anche un appello lanciato da sindaci lombardi ripreso da Massimiliano Salini, e un altro che critica la suddivisione dei fondi di emergenza che sembrano penalizzare proprio le aree più colpite), mentre un gruppo di sindaci (i 7 del Pd) dei comuni capoluogo lombardi (gli altri 5 sono di centrodestra) attacca la politica messa in campo da Regione Lombardia.
Ognuno mette a fuoco un aspetto a seconda della proprie convenienze. E così, per fermarci alla Lombardia, da un lato si rimarca la grande impresa di aver inaugurato un ospedale in Fiera a Milano in grado di ospitare 250 pazienti in terapia intensiva in soli 14 giorni, dall’altro si confronta la politica della vicina regione Veneto (ed Emilia) per sottolineare alcune discutibili scelte lombarde.
E va detto che entrambe le ricostruzioni hanno una certa fondatezza. A favore di Regione Lombardia non c’è solo la realizzazione dell’ospedale, ma anche la capacità di portare in breve tempo da poco più di 700 a 1700 i posti letto in Terapia Intensiva, oltre che la determinazione del presidente Fontana di lanciare accorati allarmi già in febbraio, ricavandone l’accusa di danneggiare l’immagine internazionale del nostro Paese.
Ma anche le critiche paiono fondate. Proprio il parallelo con quanto fatto dal vicino Veneto sembra suonare a condanna per alcune decisioni prese nella nostra regione. Si pensi alla scelta di Zaia di sottoporre a tampone tutta la popolazione di Vo Euganeo, la prima zona rossa assieme a quella di Codogno. La rilevazione ha consentito di trovare 66 positivi tra gli abitanti, il che è servito per isolare soprattutto costoro. Un paio di settimane dopo lo screening è stato rifatto evidenziando solo 6 casi di positività. Da allora Vo Euganeo, ma anche i territori circostanti, hanno avuto un’intensità del fenomeno nemmeno paragonabile a quello che si è scatenato in Lombardia: la diagnosi rapida e l’isolamento dei soggetti potenzialmente infettivi hanno prodotto importanti effetti. Quanto quel comportamento abbia inciso sul diverso sviluppo del contagio non è dato a sapere, ma sono molti oggi a sostenere che sia stato fondamentale per limitarlo. Ancora oggi Zaia è favorevole ad una mappatura il più possibile esatta (nel box sotto vediamo il dettaglio), mentre in Lombardia per essere sottoposti a tampone, nei fatti, occorre attendere spesso il ricovero ospedaliero in condizioni ormai critiche.
Non parliamo poi delle tensioni sotterranee tra governo e regione nella gestione delle cifre e dei provvedimenti. Per parecchi giorni ogni ordinanza regionale di Fontana era seguita a poche ore dall’annuncio di provvedimenti del governo che sarebbero diventati decreto (col risultato a volte di notizie anticipate che hanno creato scompiglio e problemi, come la fuga in treno da Milano verso il sud). Ora sembra invece che il governo voglia giocare di anticipo, ma il via libera (poi la precisazione di Conte) sulla libera uscita dei genitori coi figli, in un momento in cui va posta la massima attenzione, è stato un passo falso. D’altro canto è evidente che l’assessore regionale Gallera, convocando ogni giorno una conferenza stampa una mezz’ora prima di quella della Protezione Civile da tempo fissata per le 18, intende garantirsi visibilità anticipando i dati lombardi, che sono i più significativi. Schermaglie, appunto.
E così c’è chi dice che la sanità deve tornare nazionale e chi difende il modello regionale. I primi affermano che quando il Servizio Sanitario era nazionale eravamo più tutelati, i secondi rispondono che da allora ci sono stati tagli ingenti, e che oggi un servizio uniforme da Bolzano ad Agrigento non sarebbe stato in grado di fronteggiare un’emergenza di questo tipo.
In realtà, a prescindere delle autonomie, in casi come questo è sempre auspicabile un coordinamento nazionale, anzi di più, europeo. Una regia di Bruxelles avrebbe garantito un conteggio uniforme, mentre ognuno effettua campioni come crede, e conteggia i decessi secondo il suo modello. E avrebbe garantito una maggiore tracciabilità nell’uscita della crisi. Quel che è più grave, mancava un piano di intervento: lo si è visto chiaramente dalla confusione con cui si è reagito all’attacco del virus. Che almeno serva da lezione.

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