La storia di Nice Tomassetti  Non banditi, erano Liberatori


LA RICORRENZA • In occasione della Festa della Liberazione raccontiamo una vicenda singolare

Vanni Raineri
Quando, 40 anni fa, il Comune di Verbania decise di intitolare le scuole elementari della piccola frazione di Renco a Cleonice Tomassetti, il suo nome era praticamente sconosciuto al mondo, e le poche note di accompagnamento di rivelarono poi scorrette. A quel punto, anche l’ex partigiano trasformatosi in ricercatore storico Nino Chiovini decide di far luce sulla faccenda, chiarendo i contorni di quella figura misteriosa. Ma chi era questa Cleonice detta Nice che tra l’altro morì nella sua terra?
Il rastrellamento della Val Grande culminato con la fucilazione di 43 partigiani a Fondotoce, non dopo giorni di torture e umiliazioni (tra cui finte impiccagioni e fucilazioni) è vicenda ben nota nel Verbano, ma fino a quel giorno pochi sapevano che tra quei 43 c’era una donna, che anzi marciava davanti a tutti loro, e li spronava, quando i nazisti li fecero marciare sul lungolago Maggiore per sbeffeggiarli. “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?” stava scritto sul cartello sostenuto da due prigionieri sulla testa di Nice, che indossava forse per la prima volta nella sua vita abiti di una certa eleganza, offertile dalle mogli dei compagni di onore e sventura. Liberatori o banditi? Oggi sappiamo che furono i Liberatori.
Cleonice Tomassetti era laziale di origine, penultima di 6 fratelli di una famiglia contadina di un piccolo centro del Reatino. Il carattere forte si forgiò nella malasorte che la accompagnò: a 16 anni fu abusata dal padre e, rimasta incinta, fuggì a Roma dalla sorella. Il figlio nacque morto, lei si guadagnò da vivere facendo la domestica presso famiglie agiate. Era molto attraente, il che le creò parecchi ulteriori fastidi. A 22 anni, nel 1933, si trasferisce a Milano, dove trova lavoretti e inizia a frequentare un gruppo antifascista. Parte per la montagna a metà giugno del 1944 seguendo un amico rendente alla leva, che inutilmente cerca di scoraggiarla dicendole che “quello che non un luogo per donne”. Viene subito catturata nel corso dei rastrellamenti, iniziati qualche giorno prima. Era il 20 giugno quando il corteo percorse le rive del lago fino ad arrivare in località Fondotoce, dove i partigiani furono fucilati tre alla volta. La carriera partigiana di Nice (che ovviamente prima della fine fu violentata anche dai nazisti) fu brevissima ma intensa, poiché fu lei a fare coraggio ai compagni: erano più giovani di lei, e cercò di assumersi tutte le colpe anche nei duri interrogatori. La riscoperta della sua vicenda (a lungo si era scritto che fu una staffetta partigiana, maestra di scuola, moglie di un partigiano, ma si saprà che nulla di ciò era vero) si deve anche al giornalista Aldo Cazzullo, che le ha dedicato un capitolo del libro del 2015 “Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza”. Lo stesso Cazzullo sul Corriere di giovedì ha ricordato le sue ultime parole, sotto le torture naziste: «Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito, vi avverto che è inutile; quello non lo domerete mai». Nice, le cui spoglie riposano nell’area dedicata ai Martiri della Resistenza nel Cimitero Monumentale di Milano, è stata violata, torturata, sbeffeggiata dagli umani e dalla vita, ma fu donna libera, fino alla fine.

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