Ti ricordi gli anni del virus? Uno sguardo dal futuro

IL RACCONTO • Un giornalista ventenne e la drammaticità di oggi vista con gli occhi di chi un giorno ricorderà

Enrico Galletti
Avevo vent’anni. Venti. Che nessuno dica che quelli, per la mia generazione, furono i giorni più belli. Era febbraio, quando l’Italia entrò nella crisi più grande dal dopoguerra. Si chiamava Covid 19, lo chiamavano coronavirus, era un’epidemia senza precedenti. A vent’anni ci ritrovammo chiusi in casa, mentre in tv dicevano «tutto passa» e noi, a tavola, ci chiedevamo «ma quando passa». Rileggendo Manzoni, parve che quella peste a Milano parlasse proprio di noi. Ci ritrovammo le mascherine al posto delle labbra, non ci si baciava più. Eravamo sempre noi, la generazione nata all’alba del millennio, la prima a incrociarsi con le culture degli altri, a viaggiare, a varcare i confini, a parlare tre lingue da autodidatti. Se non avessimo rottamato gli album delle foto, in quegli scatti ci vedresti tristi, soli in coda per fare la spesa. Di colpo le città si svuotarono, rimasero asfalto e tombini. Dove ora la folla intorno al Duomo è tornata ad abbracciarsi, prima c’era il vuoto.
Il colpo più duro fu scontrarsi con la paura, scoprirsi diffidenti: il timore di avvicinarsi agli altri, il metro di distanza imposto dalle autorità che cozzava con la nostra idea di fratellanza. Regole ferree, rigide: la paura del contagio, il passo indietro ad ogni sguardo. Ogni giorno trascorso, poi, sembrava privarci di un po’ di libertà. Ecco, sulle prime parve che a mancare fosse proprio quello: la nostra assenza di confini.
Gli ospedali erano zone calde, di frontiera, campi di battaglia dove a morire, ora dopo ora, per molti era la speranza stessa di salvarsi. I nostri genitori ci avevano parlato degli eroi dell’11 settembre, i vigili del fuoco che domavano le fiamme al World Trade Center. Avevamo eroi moderni, in quei giorni di quando avevamo vent’anni. Medici e infermieri correvano per le corsie e i nostri telefonini vomitavano foto di ferite, volti stanchi, rientri a casa che sapevano di tristezza e di cene riscaldate.
E poi i morti. Ce ne furono migliaia. Quell’anno, a vent’anni, perdemmo i nostri nonni: la nostra generazione migliore. Perdemmo il conto delle bare che si sommavano, una dopo l’altra, troppe: venivano trasportate dall’esercito perché ci fosse spazio ogni giorno per nuovi morti da bruciare. I volti stanchi dei nostri nonni intubati buttavano le braccia a terra e si fermavano. Fine della corsa. E niente saluti, privilegio negato. Un’asettica benedizione, il profumo dei garofani, un biglietto di addio con le cose non dette da far infilare nel taschino. Non ci si poteva avvicinare, niente funerali, le lacrime non versate da sopprimere dentro. Perdemmo la generazione della storia, quella dei racconti in braccio, dei segni vivi della guerra: i cantori di un passato fermato a suon di aneddoti masticati fino alla noia. Era l’anno degli addii non detti: chi entrava in ospedale interrompeva il contatto con la gente a casa: i portelloni dell’ambulanza che si chiudevano erano per molti l’ultimo saluto a madri, padri e figli che non si sarebbero rivisti più. Mentre ogni cosa seguiva il suo corso, fuori, nonostante tutto, sbocciava la primavera. C’era il profumo dei tigli nei giardini che continuava a ricordare gli ultimi giorni di scuola, quando a scuola non ci si andava. I primi soli illuminavano i nostri volti di ventenni usciti fuori sui balconi a brandire il tricolore. Si cantava tanto, quell’anno lì, e mica roba dei tempi nostri. Si cantava Modugno, Battisti, Battiato. Li si cantava a squarciagola alle diciotto tutti i giorni, ognuno a casa sua.
Le case, appunto, le finestre: puntini luminosi che si accendevano alle sette e diventavano il buio a mezzanotte. Le cucine affollate, la pasta fatta in casa, l’odore del pane, le famiglie sedute attorno al tavolo. E nessuno lontano. Ci sentimmo proprio uniti, quell’anno lì, nonostante tutto. Forti perché combattevamo la stessa battaglia e fratelli perché insieme ne saremmo usciti.
Avevamo vent’anni, quando tutto scoppiò. Venti come gli anni che ci vollero per dare un senso a quelle cose. Come i mesi che passarono prima di intravedere la normalità. Vennero tempi nuovi, un po’ più tardi. Le città ripresero a riempirsi, tornarono gli affari, i rumori, le liti per il parcheggio. Ne uscimmo tutti un po' più poveri. Ci ritrovammo cresciuti in fretta e senza nonni. Tornammo di colpo ad abbracciarci, a baciarci, a tenerci stretti, noi che per mesi avevamo vissuto senza guardarci in faccia. Avevamo vent’anni, quell’anno. Avevamo paura. Eravamo noi, figli del nostro tempo con le nostre cicatrici da raccontare.

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