Cura col plasma, tra entusiasmi e dubbi

CORONAVIRUS • La terapia messa a punto a Mantova e Pavia sta producendo risultati che vanno oltre ogni aspettativa

Vanni Raineri
Sulla cura al plasma si è scatenata da qualche giorno una battaglia mediatica, tra chi ne parla come di un mezzo molto efficace per combattere il Covid-19 e chi invece si mostra molto cauto.
La sperimentazione della plasmaterapia è partita dagli ospedali Carlo Poma di Mantova (che con le Asst di Cremona e Crema fa parte dell’Ats Valpadana) e San Matteo di Pavia. Subito, per reclutare i donatori, i due ospedali hanno chiesto e ottenuto la collaborazione delle sezioni Avis della zona, e tra queste una delle prime è stata quella di Casalmaggiore, nel territorio dell’asse cremonese ma confinante con quella mantovana. Questo perché, come detto, da quando è stata introdotta questa terapia i risultati sono stati da subito più efficaci di qualsiasi aspettativa.
Di cosa si tratta è cosa nota, almeno a grandi linee. Il plasma è la parte liquida del sangue, e viene prelevato da persone guarite dal Covid-19 per essere iniettato, una volta purificato, nei malati, al fine di trasferire gli anticorpi specifici in grado di combattere il virus sostenendo la risposta immunitaria dal nuovo paziente. Come soldati che si siano dimostrati valenti da arruolare per una nuova battaglia.
In realtà non si tratta di una terapia di nuova concezione: il suo utilizzo è noto da diversi decenni. Chi avanza perplessità, lo fa sulla base dei costi, del numero di donatori non sufficiente per curare tutti, della tecnologia necessaria per agire in larga scala. Tra chi ne sottolinea la validità, si fa largo, in modo più o meno velato, il sospetto che usare questo trattamento invece dei tradizionali farmaci non piaccia soprattutto alle aziende farmaceutiche, con tutto ciò che ne deriva. E’ l’accusa lanciata apertamente ad esempio da un presunto medico (che poi medico si è dimostrato non essere) che dalle Mauritius affermava che il plasma funziona e non ha controindicazioni. Ad alimentare la polemica, le verifiche effettuate questa settimana dai Nas al Poma di Mantova per verificare la correttezza del protocollo seguito.
Lasciando stare le dietrologie, si tratta di stabilire se davvero sia auspicabile spingere in questa direzione o se sia meglio mantenere molta cautela, affiancando questa terapia alle sperimentazioni farmaceutiche in atto.
Un confronto che è esplicativo della discussione in atto si è svolto martedì sera nel programma di Raiuno “Porta a porta” condotto da Bruno Vespa. Erano collegati Giuseppe De Donno, primario di Pneumologia del Poma di Mantova, e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma. De Donno non ha alzato polemiche sulla visita dei Nas, difendendo la correttezza del controllo, a fronte dell’importanza del protocollo: «Io stesso sono figlio di un carabiniere caduto in servizio - ha affermato il medico - e comprendo quindi che loro stessero facendo il loro lavoro: nello specifico valutare l’esistenza dei requisiti sulla cura di una paziente in gravidanza e il numero dei pazienti arruolati rispetto al protocollo. Era tutto corretto e i Nas lo hanno capito».
Poi De Donno è entrato in tema, affermando come secondo quel protocollo al Poma siano stati trattati col plasma 48 pazienti, oltre ad altri 10 per i quali si è chiesta l’autorizzazione del comitato etico. Ebbene, tutti sono guariti in un tempo relativamente breve: «Gli ultimi ricoverati - ha chiuso De Donno - li ho appena staccati dal respiratore e fra 2-3 giorni torneranno a casa».
Molto cauto nella sua replica Ippolito: «Non sappiamo se questa cura funzioni, ma tutto va ricondotto a studi di grande dimensione. La scorsa settimana si è discusso di un farmaco e si è detto di tutto: servono studi ben condotti e campioni adeguati prima di dare certezze».
A questo punto De Donno non si è trattenuto: «Non dobbiamo dimenticare da dove siamo partiti: abbiamo disegnato un protocollo quando avevamo pazienti anche giovani che ci morivano tra le braccia. Tutto ciò che abbiamo utilizzato, compreso tanti farmaci, lo abbiamo fatto senza protocollo. Io sto in reparto 18 ore al giorno, e gli studi cui lei si riferisce magari fosse stato possibile utilizzarli dall’inizio. Ma servono mesi e nell’attesa avremmo avuto migliaia di morti in più. Quanto è successo è un miracolo, tanto che a Padova hanno già arruolato 11 pazienti, a Crema oggi altri 3, e tutto è andato molto bene. Proprio oggi la rivista Nature pubblica come la terapia di prima linea sia il plasma iperimmune. Stiamo dunque attenti ai messaggi che diamo, perché se aspettiamo gli studi randomizzati anche per gli altri farmaci va bene, ma io i fallimenti del Tocilizumab li ho salvati col siero iperimmune. Chiedo quindi che le stesse regole valgano per tutti i trattamenti. Posso farvi parlare coi pazienti che vi diranno che dopo un’ora scompaiono i sintomi».
Vespa ha poi interrotto il collegamento, ma la discussione è emblematica delle posizioni, e della convinzione che c’è a Mantova e a Pavia, ma ormai anche a Padova e altri nosocomi, come a Cremona, che la plasmaterapia si sia dimostrata il miglior alleato contro il Covid-19.

Oglio Po, Daniela borella: «anche da noi ottimi risultati»

In merito all’utilizzo del plasma sanguigno per la cura del Covid-19, abbiamo sentito il parere di Daniela Borella, direttrice dell’Unità Operativa di Psichiatria dell’ospedale Oglio Po. A pagina 8 pubblichiamo la sua intervista in merito al supporto psicologico post-lockdown, nella quale la stessa comunica l’intenzione di donare il plasma, credendo nella cura.
Le chiediamo di approfondire il suo punto di vista.
«E’ stato provato di tutto per curare i malati, farmaci retrovirali e molto altro, sino alla plasmaferesi, usata da tempo. E in effetti ha sempre funzionato».
Come mai allora questa diatriba?
«E’ vero che gli studi vanno dichiarati conclusi solo una volta in possesso di numeri di una certa grandezza, ma non abbiamo il tempo per fare questo. L’ospedale Poma di Mantova, assieme al San Matteo di Pavia, ha messo a punto un protocollo congiunto seguendo il quale tutti i malati trattati sono guariti, e si tratta di centinaia di persone».
Anche a Casalmaggiore è stato utilizzato questo protocollo?
«Certo, con gli stessi positivi risultati. Ripeto, è vero che la scienza richiede tempo, anche diversi anni, ma questo tempo oggi non l’abbiamo, e purtroppo tanti farmaci usati in precedenza hanno prodotto danni pesanti per gli effetti collaterali».

sperimentazione lombarda

la nuova frontiera e’ estrarre gli anticorpi dal plasma dei pazienti guariti

Rimanendo in tema di plasmaterapia, una nuova frontiera è quella che si sta sperimentando all’Istituto Mario Negri di Milano e all’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo. Si tratta di iniettare nel malato non tanto il plasma bensì i soli anticorpi prelevati dal plasma dei pazienti guariti. Uno studio che si propone di superare le difficoltà legate all’utilizzo delle sacche di plasma. Il metodo innovativo potrebbe rappresentare un passo avanti nella lotta al Coronavirus.
L’intuizione è stata del dottor Piero Luigi Ruggenenti, primario di Neurologia dell’ospedale Papa Giovanni: è quella di realizzare un filtro che sia in grado di catturare gli anticorpi presenti nel plasma. Non si è in grado di distinguere tra gli anticorpi, ma sapendo che il donatore è un paziente guarito, si può stare relativamente certi che si potranno estrarre anticorpi in grado di combattere il Covid-19. Il procedimento è stato mostrato sugli schermi di Sky Tg 24 dal direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi: «Invece che prelevare tutto il plasma al donatore - ha detto Remuzzi - e infondere al ricevente il plasma prelevato, che vuol dire infondere una grande quantità di volume a persone che possono avere anche scompenso cardiaco e hanno difficoltà di respiro, nel nuovo metodo vengono prelevati soltanto gli anticorpi, che poi vengono diluiti in una soluzione molto più piccola di quanto non sarebbe iniettare l’intero plasma. E vengono restituiti al paziente malato che ne ha bisogno per guarire». Il donatore dovrà avere un gruppo sanguigno compatibile con il ricevente. Per concludere la fase di studio ci vorrà ancora un mese. La frontiera successiva sarà quella di produrre artificialmente gli anticorpi, per poterne avere a disposizione in grandi quantità.


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