Enrico Piceni, promotore della cultura italiana


GRANDI DIMENTICATI • Mise a disposizione la sua genialità comprendendo la maggiore abilità propagandistica francese 


ALESSANDRO ZONTINI
La penisola italiana ha consegnato alla storia uomini di assoluto genio nelle arti: musica, letteratura, pittura, in un elenco talmente lungo da rendersi impossibile stilarlo con qualche pretesa di completezza. Parallelo all’estro artistico italico scorre, però, un altro binario: quello dell’atavica incapacità nazionale di valorizzare il proprio genio, un’incomprensibile sudditanza culturale alla bellezza straniera secondo cui i prodotti della creatività umana di origine non italiana hanno qualche lato più seducente o, più genericamente, “bello”. Quasi difettassero i nostri di tali qualità. Per esempio, gli impressionisti francesi, pur tra le vette della pittura d’ogni epoca, paiono sopravvalutati rispetto ai coevi italiani Boldini, De Nittis, Zandomeneghi, ed ai vari esponenti della c.d. “scuola di Posillipo” che, con i primi, possono perfettamente gareggiare in maestria pittorica. Nel 1884, per 4 mesi, Monet soggiornò a Bordighera, ospite dell’amico e pittore Pompeo Mariani cui, forse, deve più di qualche idea artistica. Ma, fuori dai musei ove sono allestite le mostre dedicate al francese, la fila dei visitatori è interminabile e solamente lunga è quella per ammirare le opere di Mariani. Eppure a più riprese, nella storia patria, si è cercato di elevare le masse esaltando le arti italiane, evidenziandone la perfetta capacità di primeggiare con altre straniere solo all’apparenza più “titolate”.
Di questo contegno, ampiamente meritorio, furono promotori molti, valenti, uomini di cultura, il ricordo di alcuni dei quali va progressivamente ed ingiustamente perdendosi. Tra gli altri, Enrico Piceni, nato a Milano il 26 marzo 1901, è stato un notevole esperto di pittura italiana del secondo ‘800 (in particolare, all’interno della collana da lui diretta: “I maestri della pittura italiana dell’800”, scrisse tre seminali monografie sui pittori Zandomeneghi, De Nittis, e Boldini), un rilevante melomane ed un valente poliglotta. Quest’ultima dote gli consentì di tradurre, tra gli altri, i lavori di Théophile Gautiér, “Cime Tempestose” di Emily Bronte (la prima versione in italiano) ed altri ancora, finchè il suo eclettismo culturale venne notato da Arnoldo Mondadori che lo incaricò di creare una nuova originale collana. Picerni scelse il colore giallo, a caratterizzare la copertina di questa nuova collana; individuò,quale prima uscita, il volume: “La strana morte del signor Benson” di S.S. Van Dine, lo tradusse e dette il “via” a qual fenomeno letterario, cinematografico e teatrale che, ancora oggi in Italia, è individuato come il “giallo”. Seguirono altri autori selezionati e tradotti dallo stesso Piceni: Agatha Christie, di cui curò la prima traduzione di “Poirot sul Nilo” ed Erle Stanley, padre letterario di Perry Mason. Sempre con Mondadori, Enrico Piceni inaugurò un’altra leggendaria collana. Bruno Angoletta disegnò, a china, la testa di una Gorgone e con questo specifico simbolo identificativo nacque la collana “La Medusa”, per cui l’intelletttuale milanese tradusse e curò innumerovoli opere di autori italiani ed anche stranieri (da Herman Hesse a Hans Fallada, a Thomas Mann a Virginia Woolf, spesso suscitando le riprovazioni del Minculpop, a causa della scelta di autori non prettamente italiani ma che, tuttavia, non fu mai in grado (o non volle) censurarne l’operato. Enrico Piceni non aderì al fascismo ma neppure se ne scostò. La propria genialità lo mise al riparo da eventuali ritorsioni, sia prima che dopo la guerra evidentemente se ne era colta la statura di uomo di cultura di sommo livello e, come tale, se ne volle preservare un’autonoma genialità. Enrico Piceni è l’autore di “La bancarella delle novità” (Alpes, 1928), libretto davvero raro visto che ne è nota una copia presso la “Fondazione Piceni” di Milano ed una presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Le parole riportate sulla velina pubblicitaria allegata al volume suonano emblematiche: “... il pubblico ignora veramente l’esistenza della maggior parte dei libri e dei loro relativi autori ... in Italia i critici sono troppo bravi e troppo difficili ... Guardate invece i francesi: quanta verve, quant’astuzia, quanta leggerezza nell’arte di informare il pubblico delle cose letterarie! Così il libro francese è il padrone del mondo”. Si avvertiva l’esigenza di promuovere la cultura italiana! L’opera di Enrico Piceni e’, quindi, una raccolta di articoli che lo stesso scrisse per la “Rivista d’Italia”. Ogni scritto è un piccolo scrigno di elevata e finissima cultura. Non vi è un rigoroso filo conduttore, somigliando tale volume ad un meraviglioso zibaldone che serpeggia rapsodicamente tra i mille rivoli di un sapere eterno. Si inzia con note su Luigi Pirandello e su Guido da Verona che, in quel preciso periodo storico, vendeva quantità di libri oggi incomprensibili. Enrico Piceni, seppur severo nei confronti di Da Verona, ben ne individua le indubbie potenzialità: “... noi continueremo a parlar male di Guido da Verona finchè lo vedremo ostinarsi a sciupare, a dilapidare, in opere imperfette, le sue magnifiche doti, però attenderemo ogni suo libro ... certi di non aver inutilmente impiegato il nostro tempo”. La scoperta della tomba di Tutankamon avvenuta nell’anno 1922 ad opera di Lord Carnarvon e dell’archeologo Howart Carter che aveva rilanciato prepotentemente in Europa la “moda” dell’antico Egitto (un po’ come, in tempi più recenti, accadde nella seconda metà degli anni ‘90 che videro l’enorme successo del romanzo “Ramses” e di altri lavori di Christian Jacq) offrì l’occasione per interessanti incursioni nel modo della civiltà nilotica, Enrico Piceni individua queste incursioni in “Terra di Cleopatra” e “Mea Culpa” di Annie Vivanti e “Sanya, la moglie egizia” di Bruno Corra dei quali esalta i meriti sia letterari che divulgativi, addirittura auspicando una riduzione cinematografica per “Mea culpa” e, nel celebrare il lavoro di Corra, scrive che le “venti paginette così dense di umorismo, così mosse e intelligenti che non saprei trovarne, nei romanzi d’oggi, molte capaci di star loro a pari”. Non mancano richiami agli “incompresi”, autori non (ancora) riconoscuti come “grandi”, quali, ad esempio, Orio Vergani. Piceni precisa che, in un momento in cui si dilettava a leggere le avventure di Fantomas, di Rocambole e di Sherlock Holmes e, nei momenti di maggior impegno intellettuale, D’Annunzio e Tagore, scoprì Vergani che era ancora poco noto tra i librai ma che ritenne, con considerevole intuito, prossimo a diventare l’autore che oggi apprezziamo. Enrico Piceni ebbe anche la capacità prospettica di intuire la grandezza letteraria di Grazia Deledda. Commenta infatti: “Son convito che se, tra qualche centinaio d’anni, i critici di Grazia Deledda e i suoi lettori ed estimatori, anche i più fedeli, potessero dall’altro mondo gettare un’occhiata su un manuale di storia della letteratura, rimarrebbero lietamente stupiti nel vedere la prevalenza data all’autrice di Annalena Bilsini in confronto di molti alti e altissimi papaveri dell’orto letterario italiano contemporaneo” (appena qualche mese dopo a Grazia Deledda - in competizione con un’altra grande donna italiana, Matilde Serao - venne consegnato il premio Nobel). E prosegue Piceni richiamando Italo Svevo, ed Eugenio Montale, e Sibilla Aleramo, e Riccardo Bacchelli, e Sem Benelli, e Virgilio Brocchi, e Ada Negri, e Giovanni Verga e molti altri ancora. La “fascetta editoriale” del volume precisa che “chi legge La bancarella delle novità” avrà letto 100 libri. In effetti dopo aver letto il volume “ci si ritrova con un corredo nuovo di cognizioni e, quel che è più, con il desiderio di aumentarlo”. Grazie anche a Enrico Piceni, instancabile promotore di cultura.
 

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