Mastroianni, l’antidivo in fuga dal proprio mito

19/12/1996 • Moriva 24 anni fa a Parigi uno dei più grandi attori italiani. L’analisi del professor Alberto Scandola

Federico Pani
In piazza di Trevi, a Roma, ci sono almeno due monumenti eterni. Uno, in tempi normali, non lo si vede subito nemmeno quando ce lo si trova di fronte, abbracciato com’è, sempre, da una folta e variopinta siepe di turisti. È, naturalmente, l’omonima fontana, settecentesco capolavoro barocco di Nicola Salvi. L’altro monumento invece, lo si vede ben prima di arrivare di fronte alla fontana perché, in fondo, lo conosciamo tutti, da sempre: sono Anita Ekberg e Marcello Mastroianni, immersi fino alle caviglie in quella vasca, abbracciati, con le labbra che quasi si sfiorano. Oggi ricorre l’anniversario della morte del celebre protagonista della “Dolce vita”, scomparso a Parigi nel 1996. Vale sempre certamente la pena di ricordarselo là, in quella Roma di inizio anni ’60, la Roma di Fellini e di via Veneto. Così come vale la pena riscoprire anche il lato più sfumato e umbratile di un attore che fu l’emblema della bellezza e della solarità italiane.
Ne parliamo con Alberto Scandola, saggista e professore dell’Università di Verona, dove insegna Storia e critica del cinema.
Che tipo di divo è stato Marcello Mastroianni per il cinema italiano?
«La questione ci porta a parlare del concetto di divo nel cinema italiano, un concetto fragile e ambiguo. Questo perché non possiamo parlare di un vero star system paragonabile a quello americano. Anzi, sempre più studi accademici dimostrano come da noi prevalga la nozione di antidivo. Mi spiego: nell’ambiente culturale del cinema italiano, gli attori più popolari si vantano di fuggire dalle luci dei paparazzi ed essere impegnati nel lavoro sui personaggi. Questo lo fanno dei contemporanei come Pierfrancesco Favino, Elio Germano e Jasmine Trinca, solo per fare qualche esempio. È un atteggiamento antico, che risale al neorealismo. Mastroianni fu uno dei massimi esempi di questa attitudine, che mostrò sempre nei confronti dei suoi fan e dei i suoi ammiratori. Fu consacrato da Fellini come latin lover nella “Dolce Vita” (1960) e in “8½” (1963), ma lavorò poi sempre anche contro questo stereotipo, per esempio interpretando la parte dell’impotente nel film “Il bell’Antonio” (1961) di Mauro Bolognini. Fu insomma una star, ammirata a livello planetario, ma che visse il ruolo dell’uomo bellissimo e seducente sempre in modo un po’ sornione, come se si fosse trovato a farlo un po’ per caso e senza mai recitare, come persona, il mito che incarnava».
Non ha l’impressione che Mastroianni abbia resistito meno alla prova del tempo, se paragonato a maschere come quella di Alberto Sordi o di Totò?
«Non sono d’accordo. Innanzitutto, Mastroianni non ha mai cercato di diventare una maschera. Rispetto a Totò (che non mi sembra in fondo così più popolare di Mastroianni), si tratta di due prototipi attoriali completamente diversi. Inoltre, nutro anche dei dubbi sul fatto che abbia saputo resistere meno alla prova del tempo: di recente, è uscito un libro della studiosa americana Jacqueline Reich dedicato all’attore, “Beyond the Latin Lover”, dove si parla della fama del Mastroianni postumo, tornata di moda grazie all’iconica figura dell’attore in occhiali da sole nei film di Fellini. Direi questo: se Mastroianni, forse, non è più di moda come attore, resta simbolo dell’italian style, dell’italianità».
Si può pensare a Mastroianni senza Fellini?
«Il rapporto tra Fellini e Mastroianni è simile a quello nato in altre grandi coppie, altrettanto famose, di attori e registi: penso a Jean-Luc Godard e Anna Karina, a Michelangelo Antonioni e Monica Vitti, a François Truffaut e Jean-Pierre Léaud. Esiste Jean-Pierre Léaud senza Truffaut? Certo che esiste. Mastroianni, anzi, è riuscito a smarcarsi da Fellini più di quanto non sia riuscito a fare Léaud con Truffaut. In particolare, nel lavoro del regista Marco Ferreri, Mastroianni è riuscito a distruggere l’impalcatura dell’immaginario di maschio seducente, pettinato ed elegante costruita da Fellini (che voleva vedersi proprio così). Mastroianni resiste benissimo infatti anche senza i due celeberrimi film di Fellini, che vanno al di là dell’attore: sono due capolavori del cinema italiano in assoluto. In “8½” c’è sicuramente davvero più Fellini, mentre nella “Dolce vita” la forza del protagonista si avvicina a quella del regista. Mastroianni è grande, però, anche in molti altri film. Prendiamo “La grande abbuffata” (1973) di Ferreri: quel film è l’apice del percorso di destrutturazione dell’ideologia e del mito del superuomo maschile; nega in tutto, infatti, il personaggio felliniano di Marcello. A proposito, una piccola curiosità: nel film, Mastroianni è il primo a morire, ma succede solo per ragioni del tutto pratiche; raccontò Michel Piccoli (uno degli altri protagonisti della pellicola) che, per impegni personali, dovette lasciare il set per raggiungere la sua compagna di allora, Catherine Deneuve».
Di Mastroianni è stato detto di tutto e il suo contrario: pigro e gran lavoratore, gentile e sornione, grande amatore e sposato, icona del maschio italiano e, come diceva lo stesso Fellini, molto femminile. Come teniamo insieme queste cose?
«Le teniamo molto semplicemente insieme perché le abbiamo già viste in un altro campione del cinema, Marlon Brando. Di lui è stata detta la stessa cosa. L’uso delle mani in “Fronte del porto” (1954) e in “Ultimo tango a Parigi” (1972), voglio dire, il modo in cui tocca gli oggetti e i corpi denota una grazia decisamente femminile. Faccio vedere spesso a lezione una scena molto simbolica di “Fronte del porto” nella quale Brando raccoglie un guanto femminile e lo indossa. Tutti i grandi personaggi maschili, del resto, hanno giocato con il loro lato femminile. Mastroianni non fa eccezione: nel film “Niente di grave, suo marito è incinto” (1973) l’attore recita proprio la parte dell’uomo “incinto” (come capitò di fare anche a Gérard Depardieu). Questo aspetto denota sicurezza, duttilità e anche voglia di sperimentare».
Ci può segnalare due film con Mastroianni: uno da riscoprire e uno invece, a suo giudizio, un po’ sopravvalutato?
«Da riscoprire citerei un altro film di Ferreri, “Ciao Maschio” (1978), che però è irreperibile sia in dvd sia sulle piattaforme. Mastroianni qui interpreta splendidamente il ruolo di un uomo invecchiato, dentro un corpo deperito più di quanto non fosse il suo nella vita reale. Film da dimenticare? Beh, più che da dimenticare, direi che “Le notte bianche” (1957) di Luchino Visconti è un film che non ha superato bene gli anni e si potrebbe trascurare. Mi sembra che, in quel caso, l’interpretazione di Mastroianni non sia particolarmente autentica. Anche se, va detto, proprio con Visconti esordì l’attore, nell’allestimento della commedia “Un tram chiamato desiderio”. In generale, il Mastroianni degli anni ’50 non è molto considerato, almeno fino alla sua partecipazione al film “I soliti ignoti” (1958). “Il Mastroianni degli anni ‘50”, ecco: diciamo che potrebbe essere questo il titolo per un buon progetto di ricerca di uno studente, visto che la filmografia di Mastroianni che precede la “Dolce vita” è particolarmente trascurata».

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