Küfferle, dietro al traduttore un talento da esplorare

 GRANDI DIMENTICATI • Fuggì a Milano con la famiglia da Pietroburgo nei giorni della Rivoluzione. Rese popolari i grandi russi

Alessandro Zontini

Felice Momigliano, autorevole studioso e scrittore d’inizio secolo, ci ha lasciato un prezioso manualetto dedicato a Leone Tolstoi (esattamente il n. 14 della prelibata collana “Profili”, anno 1911, dell’editore “Formiggini” di Modena). Il volume costituisce una prima, esaustiva, analisi dell’autore ma, anche, più in generale, un doveroso tributo nei confronti della letteratura russa fiorente tra la fine dell’800 e le prime decadi del ‘900. Sviluppando l’analisi su Leone Tolstoi e sul mondo “tolstoiano”, Momigliano precisa come Dostojewski scrivesse: “Tolstoi è una grande forza, è l’ingegno più meraviglioso che abbiamo in Russia”. E incalza: “Turghenieff dal suo letto di morte lo scongiurava (Tolstoi, nda) di ritornare ai romanzi”. E Flaubert scriveva allo stesso Turghenieff: “Mi sfuggivano delle grida d’ammirazione durante la lettura (di Tolstoi, nda) ...”.
Ne traiamo la convinzione che tra i proverbiali “addetti ai lavori” di inizio secolo, la letteratura russa godesse di ampi consensi. Momigliano, tuttavia, avanza pure qualche doglianza stigmatizzando, con sentito rammarico, come in Italia fossero presenti numerose traduzioni dell’autore russo, ma queste fossero non molto raccomandabili per resa ed effetto, giungendo a consigliare il ricorso a qualche specifico interprete capace, viceversa, di valorizzare quella letteratura che “doveva”, per la sua intrinseca levatura narrativa, essere ancora debitamente scoperta. La ricerca e la promozione degli autori russi, specie nei primi decenni dello scorso secolo, è stata spesso connotata da generosa approssimazione ma, in seguito, la critica si è impegnata in un rinnovato studio di autori il cui genio non era stato opportunamente valorizzato. Viceversa, si è assistito anche a fenomeni inversi o speculari: autori russi, ben apprezzati in occidente nella prima metà del XX secolo che, nel tempo, sono gradatamente “svaniti” nell’interesse del lettore medio e, cosa assai più grave, nell’analisi della critica.
Tra i tanti, un tempo celebrati per indubbia caratura e, in seguito, inopinatamente trascurati, emerge, per capacità narrativa e sentore intimista, Rinaldo Küfferle. Nato a Pietroburgo nel 1903 (e mancato a Milano nel 1955) Küfferle fuggì, unitamente alla propria famiglia d’origine, dalla Russia nell’ottobre del 1917, a causa della drammatica situazione in corso dovuta alla divampante rivoluzione in atto. Giunto in Italia, il giovane Rinaldo frequentò il Liceo classico a Lodi e si laureò in filologia classica a Milano. Ottenuta la cittadinanza italiana, iniziò una proficua attività di poeta e di compositore in versi. L’editore Bietti di Milano, apprezzatone il piglio e la levatura, lo incaricò di dirigere la collana “Biblioteca russa” che divenne molto apprezzata e popolare grazie alla duplice attività di traduttore e di direttore editoriale svolta efficacemente dallo stesso Küfferle. Quale traduttore, unitamente alla celebrazione di autori “classici” quali Turghenieff, Puskin e Dostoevskij, gli va ascritto il merito di aver contribuito a rendere noti e di aver contribuito alla diffusione, presso il pubblico, di autori russi del tutto sconosciuti nell’Italia degli anni ’20 e ’30: Amfiteatrov e Ivanov ed altri, fuggiti a seguito della rivoluzione d’Ottobre e che avevano trovato riparo in Italia. Rinaldo Küfferle che, nel frattempo, aveva avviato una proficua collaborazione con vari quotidiani e che curava la rubrica dedicata alla letteratura russa attraverso i microfoni dell’Eiar, incentivò in seguito la propria produzione in prosa (tra cui “Il cavallo cosacco”, “Giuliano l’apostata” e “Persone e personaggi”) e in poesia (“Poesie scelte”, “Canti spirituali”, “I sogni” e “Fuochi costieri”), ottenendo differenti riconoscimenti negli anni ‘30. Nel secondo “dopoguerra”, le fortune letterarie di Küfferle mutarono drammaticamente e sull’autore scese l’oblio. Un pugno di volumi è ancora in circolazione a prezzi decisamente contenuti (frutto di un riprovevole disinteresse dovuto più a ragioni di carattere politico che a questioni di carattere meramente letterario) e se ne suggerisce, senz’indugio, l’acquisto. Uno di questi volumi, in particolare, è divenuto particolarmente raro. Si tratta de “Il pericolo: appunti di romanzo” (Milano, Casa editrice Minerva, 1935). Il volume è una raccolta di brevi narrazioni di carattere “intimista” e di elevato segno stilistico: attraverso la narrazione e la descrizione di “quadri” personali, l’autore penetra il proprio mondo in modo autobiografico, esplorando i propri sentimenti, i moti del proprio “ego”, l’emozione della conoscenza diretta dell’esistenza nel momento esatto in cui la fanciullezza spalanca le porte all’adolescenza, antiporta della maturità e dei vari dubbi che la connotano. La scrittura è diretta, scevra da toni epici o celebrativi. E’ la confessione, attualissima, di un giovane uomo e di come la vita si presenti nei suoi caleidoscopici effetti (impetuosa, crudele, delicata, rasserenante). Nell’iniziale novella “I primi nudi” emerge come il protagonista (lo stesso autore) vada alla ricerca spasmodica, immaturamente adolescenziale, delle nudità umane e, nello specifico, quelle femminili che, con ogni evidenza, lo attraggono molto. Il padre del protagonista svolge attività di scultore e questi si nasconde all’interno dell’atelier del genitore ove spia sia l’artista che, con fare delicato, spruzza la creta con l’acqua onde poterla modellare e, specie, la modella che, prima di mettersi in posa si spoglia con fare delicatamente fascinoso. L’“estasi” erotica che sembra pervadere il ragazzo viene interrotta solo dall’inatteso arrivo della governante che lo scopre e lo riporta alla nuda, cruda, realtà. In un altro episodio della stessa novella, il protagonista, mentre si trastulla in barca sul lago cullato dalle onde, scorge una nuotatrice, che indossa una cuffia rossa, che catalizza la sua attenzione ipnotizzandolo con i propri movimenti lenti e soavi. Una vecchia la attende sorreggendo un accappatoio e, nel momento in cui esce dalle acque, appare in tutta la sua nudità: “Man mano che in seguito si ampliarono le prospettive della conoscenza, la vita mi contese sempre più gelosamente il suo intimo senso (…). La vera nudità si cela fatalmente al di là della carne, di là dai sensi tempestosi”. Ne “Il gatto”, l’autore sviscera il suo amore fanciullesco nei confronti del proprio amico quadrupede e ne delinea l’attitudine comportamentale che fluttua da un atteggiamento selvatico ad un contegno docile ed affettuoso. Poi il dramma: il gatto resta ferito a seguito dell’inopinata, violenta, chiusura di una porta di casa da parte della domestica (che non ama affatto la bestiola). L’autore trasferisce i propri stilemi narrativi da un momento meramente introspettivo ad un segmento di efficace, quanto esasperata (ma perfettamente comprensibile) angoscia per la sorte del gatto. Come in una sfrenata cavalcata letteraria, l’“io” narrante, accompagnato dai genitori, sfreccia prima in slitta e, in seguito, in treno verso Mosca, verso quel veterinario che, indubbiamente, salverà l’animale. Ma il responso è tragico: l’animale ha la colonna vertebrale spezzata e non resta che attendere o accelerare pietosamente l’inevitabile. Ma il padrone del gatto sottrae la bestiola al veterinario già pronto con l’iniezione che avrebbe posto termine al dolore e, persuasi i propri genitori, fa ritorno a casa, sperando nella sorte benevola o in un improbabile fato amico. La mattina successiva non si trova più l’“amico” quadrupede. Ne segue un’affannosa ricerca: “Senza giubba, col solo berretto in testa, corsi fuori. Mi avvolse il gelo pungente e salutare dell’aria libera. Sulla neve mi apparvero, care e vuote, le orme delle note zampine con la lunga striscia lasciata da quelle posteriori, trascinate”. Poi il rinvenimento del corpo esanime del micio: “Il suo ultimo sforzo doveva essere stato quello di nascondere ai miei occhi, e agli occhi degli altri, la miseria dell’agonia e la squallida vista della carogna” e la conclusione: “… impietrito sul posto, per la prima volta mi scoprii con mano tremante il capo dinanzi al mistero della morte”. Un’altra novella meravigliosa è “L’albero” con un finale di palpitante dolore: “Di me, solo lo spirito, in un attimo d’oblio di questa umana tristezza, poteva librarsi a volo, incontro a un’illusoria carezza del cielo indifferente. La carne era prostrata, umiliata, come un cane battuto che si accovaccia sulla cuccia”. Si segnala un’unica copia ora in vendita su “e-bay” a 50 euro. Si tratta di denari molto ben spesi.

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